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 2023  aprile 22 Sabato calendario

Intervista a Stefano Bollani

Il jazz? È quello che lo ha reso famoso nel mondo. La classica? Ha suonato il suo pianoforte immerso in orchestre dirette da Riccardo Chailly, Zubin Metha, Daniel Harding... La musica brasiliana? Caetano Veloso e Chico Buarque hanno condiviso il palco con lui. Il teatro? Ha lavorato, fra gli altri, con Giuseppe Battiston e con Maurizio Crozza. La radio? Per il terzo canale Rai ha inventato e condotto trasmissioni originalissime. La scrittura? Finora ha pubblicato cinque libri. Il cinema? Si sta – parole sue – «appassionando molto alle colonne sonore». La televisione? Su Raitre, da Sostiene Bollani (2011-2013) a Via dei Matti n. 0, le sue trasmissioni hanno uno share che va verso l’alto. E il pop? È stato a fianco di Jovanotti, Irene Grandi e Raf. «La musica è musica», dice a «la Lettura» Stefano Bollani (1972), poco prima dell’uscita del nuovo disco Blooming e della tournée.
Bollani, in questi giorni riprende a distanza di un anno e mezzo a fare concerti. Come la vive?
«Non sono mai stato senza suonare in pubblico così a lungo. Mi sento in fibrillazione».
Fibrillazione significa tensione?
«Per me la tensione è sinonimo di entusiasmo: cambia solo il punto di vista».
E come cambia?
«È semplice: se vivi la situazione come tensione, ti rovini la serata. Se invece la riesci a tenere nella casella dell’entusiasmo, il problema non si pone».
Vuole dire che in tutta la carriera non è mai stato teso per un concerto?
«Non è la mia attitudine. Per me salire sul palco è sempre stata una gioia».
Ma davvero, nemmeno una volta?
«Anche in momenti in cui con la Gewandhaus Orchestra di Lipsia, la mia prima volta con una formazione classica così importante, dovevamo suonare musiche di Maurice Ravel in piazza, ha vinto l’entusiamo su tutto».
A fine mese esce il nuovo disco: «Blooming», pianoforte solo. Che idea c’è dietro?
«Sono tutti brani nuovi, nati in situazioni diverse, li ho scritti per suonarli in tv nell’ultima edizione di Via dei Matti n. 0. Lì, avevano una durata un pochino ridotta, nel disco li ho dilatati, li ho affiancati e insieme mi hanno suggerito l’idea di una fioritura. Per questo il disco si chiama Blooming. Mi piacciono molto anche il progetto grafico e i disegni».
Prima la musica e poi il titolo?
«Mi piace mettere i titoli dopo. Da quando ho scoperto che lo faceva Claude Debussy, lo uso sempre come scusa».
Prendiamo uno dei brani, «Brain Food», cibo per il cervello, che è forse quello più jazzistico di tutti...
«...È anche quello più bluesy».
A che cos’è legato il titolo? Al fatto che oggi bisognerebbe dare più cibo al cervello per salvare il mondo?
«Lei così mi attribuisce un’intenzione didattica. Non ci avevo pensato, ma sono convinto che il cervello abbia sempre bisogno di essere nutrito di belle cose».
Cosa sono le belle cose per lei?
«La letteratura, l’arte, l’amore... Di queste cose ho sempre avuto bisogno: fin da bambino mi sono sempre andato a cercare stimoli del genere».
Lei ha fatto di tutto nella sua carriera, ma c’è qualcosa che snobba?
«Intende dire che non mi piace?».
Sì.
(Ride) «Beh, direi che “snobbo” tutto quello che non faccio. Cerco di fare ciò che mi piace, quindi è abbastanza facile».
E le cose che le piacciono sono tante.
«Eh, sì. In realtà ce ne sono tante altre che mi piacerebbe fare, ma ci arriverò».
Ce ne dica una.
«Voglio suonare il Concerto per due pianoforti (1932) di Francis Poulenc».
Due pianoforti: lei e chi?
«L’ho proposto a Joo Hyung-ki del duo Igudesman & Joo. Lui è un amico e, come me, ha una vocazione per il teatro: è divertente suonarci. Eseguiremo questo Concerto insieme a Roma e in altre città».
Chi si sente di ringraziare più di ogni altro per la sua carriera?
«Enrico Rava».
Perché?
«Non è solo un maestro di musica e di vita ma è stato anche colui che mi ha portato a conoscere una quantità enorme di musicisti e addetti ai lavori, mi ha fatto conoscere per esempio due etichette importanti per me come Ecm e Label Bleu».
Che cosa le ha trasmesso?
«Mi ha dato un’enorme fiducia nelle mie possibilità. Io ero un ragazzino, lui un mito che voleva suonare con me».
E da un punto di vista musicale?
«Ho imparato come si vive il gruppo. Faccio un esempio. Quando ero giovane ma avevo già delle mie formazioni, ero quel genere di leader che andava dai suoi musicisti per dire: “Prova a fare una cosa tipo così...” e gli spiegavo a parole cosa intendevo e cosa volevo. Enrico mi disse: “Nel momento in cui tu chiami un musicista, è perché ti piace. Quindi non ha alcun senso dirgli cosa deve fare”».
Una regola non da poco.
«Sì: suona con quelli che ti piacciono e così non ci sarà nessun problema».
E così è stato?
«Così è stato».
Lei si è esibito anche con Caetano Veloso. Un suo ricordo insieme?
«Sono innamorato della voce di Caetano: se cantasse l’elenco del telefono, mi farebbe commuovere. Ci siamo incontrati dal vivo qualche volta ma poi soprattutto nel mio disco Que Bom ha cantato un pezzo scritto da me, in italiano, lingua che lui fra l’altro parla bene. Quindi ha capito il testo, lo ha interpretato e cantato meravigliosamente. Sono passati cinque anni, ma mi sento ancora oggi sotto schiaffo emotivo per quell’opportunità».
Lei fa moltissimo – pensiamo per esempio alla sua trasmissione su Raitre – per la divulgazione della musica. Fa conoscere agli spettatori giovani talenti jazz come Matteo Mancuso, tra gli altri, noti fino ad allora solo agli appassionati. Che genere di risposta arriva dal pubblico?
«Difficile rispondere. Posso però dire quello che ho capito dal nostro programma, e cioè che grazie alla collocazione in prima serata è una trasmissione che ha parlato anche ai bambini. Sui giovani non so rispondere, ma sui bambini sì».
Risultato?
«In molti ci scrivono che hanno il figlio o la figlia che, dopo avere visto e ascoltato un musicista, hanno chiesto di poter imparare a suonare, che so, il clarinetto. Questa è la soddisfazione più bella di tutto il progetto: vedere un bambino che si ferma a guardare il televisore e poi sentirlo dire che vuole suonare».
Se le chiedessimo qual è una delle sue più grandi soddisfazioni, lei risponderebbe con questo esempio?
«Sì, avvicinare qualcuno alla musica. In fondo anche nel mio ricordo di ragazzino è andata così: qualcuno, senza volerlo magari, mi ha fatto vedere che fare musica è bello. Credo che questo sia il succo in definitiva anche di ciò che faccio quando salgo sul palco».
Gioia nel creare e nel condividere.
«Bisogna dimostrare che vale la pena studiare uno strumento, che è una cosa complicata e difficile, se vogliamo, ma poi, da lì in avanti, è tutta gioia».
Che cos’è la musica per lei?
«Più ascolti musica, più te ne nutri e più, in definitiva, sei a contatto con un linguaggio che è vicino a quello della fondazione dell’universo, perché il nostro mondo è costruito sui numeri, sulle vibrazioni, e la musica è esattamente questo: una vibrazione che ha precise concatenazioni matematiche. La musica è un linguaggio universale che non ha bisogno delle parole perché è la cosa più vicina al linguaggio degli dei».
Sotto questo punto di vista anche le sue «Radici» – giusto per citare un altro brano dall’ultimo disco – si perdono in un tempo remoto?
«Guardandola sotto quest’ottica, il brano ha evocato in me qualcosa di ancestrale, non razionalizzabile. Per esempio, riascoltando questo brano sento radici francesi, che, a dire il vero, mi stupiscono anche. Le radici sono quella cosa lì, che sta sotto terra e che a volte non ti rendi nemmeno conto di avere ma che ti legano a un passato».
A proposito di questi argomenti – ci passi la definizione – esoterici, lei nel 2021 ha inciso il disco «El Chakracanta» pensando ai centri energetici del nostro corpo secondo le tradizioni induiste, i chakra appunto, ciascuno caratterizzato da un colore diverso. Ne ha scelti due in particolare...
«Sono due composizioni per pianoforte e orchestra, Concerto Azzurro e Concerto Verde dedicate rispettivamente al chakra della gola, che è quello dell’espressione e della comunicazione, e al chakra del cuore e dell’amore, che è più intimo invece. Almeno io lo sento così».
Che genere di letture l’hanno portata a questi argomenti?
«Molte e diversificate. In questo ringrazio anche Valentina (la moglie, ndr )».
E ora cosa sta leggendo?
«Sto rileggendo un saggio di Andrea Pasquino su Raymond Queneau e mi sono ricomprato il suo Zazie nel metró in francese: è uno dei miei primi amori letterari. Ci torno ogni tanto. Mi fa bene. Un po’ come Italo Calvino».
Autori per molti versi vicini...
«Sono due scrittori che avevano in mente impalcature precise per i loro testi, ma all’interno di queste davano l’impressione di improvvisare, di giocare».
E questo le piace?
«Molto. Se leggi I fiori blu di Raymond Queneau, pensi: “Vabbé, è scritto di getto”. Poi lo rileggi e dici: “Aspetta... ma qui c’è la teoria della storia di Hegel”. Vai avanti e... “Attenzione, c’è la psicoanalisi”. Poi noti che i personaggi si incontrano sempre in un modo simile. E capisci che dietro c’è una doppia lettura, anche tripla, con un gioco raffinatissimo. Il romanzo, come la musica, può avere più letture, quindi più livelli di godimento».
Parlando di scrittori, lei ha da poco scritto la colonna sonora per il film «Il pataffio» di Francesco Lagi, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Malerba.
«Bellissimo testo. Sia io che Valentina, oltre che lettori, siamo cinefili. Per questo film c’era bisogno di due canzoni da far cantare in scena: mi hanno perciò chiamato prima dell’inizio delle riprese, cosa che accade di rado per chi fa colonne sonore. I compositori scrivono guardando un premontato, qui invece, quando gli attori hanno iniziato a girare, la musica c’era già: è un po’ come se avesse contribuito a creare anche le immagini».
Com’è arrivato a lavorare con i grandi direttori d’orchestra?
«È partito tutto da Riccardo Chailly. Mi era già capitato di suonare con qualche orchestra, però è stato lui che ha voluto che suonassimo e incidessimo insieme nel 2010 un disco dedicato alle musiche di George Gershwin. Poi ho proseguito».
Com’è la sua tecnica pianistica?
«Faccio una premessa. Ho appena fatto un albero genealogico di pianisti».
Perché?
«Per curiosità. Il mio maestro, Antonio Caggiula, appartiene alla scuola pianistica napoletana, che risale a Sigismund Thalberg, virtuoso di fine Ottocento».
Ci spiega la tecnica napoletana?
«È un modo di suonare, di poggiare le mani sulla tastiera, che condivido con Riccardo Muti, per esempio, e anche con Martha Argerich. Ma solo perché abbiamo studiato con la stessa impostazione: i nostri insegnanti hanno appreso quella tecnica e ce l’hanno trasmessa. Nell’albero genealogico, vedendo chi studiava con chi, con sette salti all’indietro nei secoli sono arrivato fino a Mozart, che insegnò a Johann Nepomuk Hummel, il quale poi a sua volta... E sono arrivato fino a oggi».
Quando iniziò a studiare il pianoforte, che cosa l’ha messa in difficoltà?
«Per il diploma al Conservatorio alcuni brani li ha scelti il mio maestro. Uno di questi era la Sonata opus 110 di Beethoven, un capolavoro che però allora non mi piaceva un gran che. Preferivo Gershwin. All’epoca ascoltavo bebop, quindi cercavo fra i classici degli autori che nell’armonia avessero qualcosa di vicino al jazz, come Debussy, Pierre Boulez, Sergej Prokof’ev, Igor Stravinskij».
Cosa la incuriosisce nel jazz?
«Da anni sento ogni tanto qualche rapper in gruppi di jazz. Però sono sempre pochi vista la vicinanza dei linguaggi, che vengono entrambi dal mondo afroamericano e dalla strada. Mi piacerebbe sentire più esperimenti in questo senso».
Lei ha fatto una cosa con un rapper.
«Sì, insieme con Anastasio».
Della trap invece che cosa pensa?
«È un mondo che non conosco bene ma posso dire che in tutto ciò che ho sentito di Tha Supreme (ora noto come Thasup, ndr), un giovanissimo di Fiumicino, trovo sempre qualcosa di stimolante».
Ma lei studia molto lo strumento?
«Secondo lei?».
Secondo me sì. Ma forse mi sbaglio.
(Ride) «Lasciamola allora così questa risposta, sospesa nel dubbio».