La Lettura, 22 aprile 2023
Intervista a Salman Rushdie
Salman Rushdie è fatto della sostanza dei suoi romanzi, costruiti con il miglior inglese scritto del nostro tempo, e dello slancio epico delle storie indiane. Eppure è innegabile che, per molte persone in tutto il mondo, Rushdie sia associato a un’unica parola: fatwa, la condanna a morte che l’ayatollah Khomeini gli ha scagliato addosso nel 1989 per il suo romanzo I versi satanici.
«Quando ascoltai per la prima volta la parola fatwa, capii che mi sarebbe stata agganciata come palla al piede per tutta la vita», disse una volta Rushdie. Aveva ragione.
La condanna a morte è un evento che sfugge completamente al tuo controllo. Quando sei condannato a morte smetti di essere un soggetto privato e diventi esclusivamente un soggetto pubblico, soprattutto perché sei un pericolo pubblico. Qualunque sia il tuo ruolo nella società, catalizzerai attenzione. Se poi la condanna a morte arriva per quel che hai scritto, per storie e parole, allora dovrai anche difenderti da chi ti dice: «Ringrazia il cielo perché la condanna ti fa vendere libri» ma anche «Figuriamoci, sono solo parole... se avessero voluto farti fuori non lo avrebbero annunciato, lo avrebbero fatto e basta». In sostanza passi i tuoi giorni pensando che, non fosse stato per la condanna a morte, non avresti venduto nemmeno una copia e che hai la vita rovinata per niente, perché se davvero avessero voluto ammazzarti lo avrebbero fatto, punto.
Salman Rushdie dal giorno successivo alla sua condanna ha provato a seppellire il simbolo, a metterlo da parte, a non vestirne gli abiti, a lasciarselo alle spalle. Non ha assecondato la tirannia mediatica che pretende di ridurre ogni figura a un unico movimento, unico atto. Sei fatwa, sei la battuta comica che ha avuto successo, sei il mago che hai interpretato nel film che ha vinto l’Oscar, sei una cosa sola e sempre la stessa. Fine. Banalizzare tutto per rendere il gusto più facile da gestire, prodotti più diretti da collocare. Rushdie non si è mai trasformato in maschera, è rimasto uno scrittore.
Qualche giorno fa, eravamo davanti al computer, io in Italia lui negli Stati Uniti; ci osservavamo per vedere cosa fosse cambiato in noi dalla prima volta che ci siano visti di persona, nel lontano 2008 all’Accademia dei Nobel, invitati entrambi per parlare di libertà di espressione. Io dovevo sembrargli un ragazzino sprovveduto, un giovane scrittore meridionale che chi sa per quale miracolo era finito nell’Olimpo della letteratura mondiale. Lui, invece, si palesò a me come quel che non sarei mai stato: un uomo in cui la voglia di vivere superava qualunque altra necessità. Mi aveva avvisato: «Passeranno dieci anni e ti faranno sentire in colpa per non essere morto». Sapevo che sarebbe accaduto, avevo la scorta da due anni e già mi sentivo un sopravvissuto.
«Salman – gli dico – ho seguito la tua convalescenza attimo dopo attimo. Mi sono costantemente informato sulle tue condizioni di salute attraverso amici comuni. E ora che posso finalmente vederti, sono felicissimo». Mi risponde tenendo dinanzi a sé chiara la prigionia del bersaglio. «Roberto, ti ringrazio per le tue parole anche perché tu sai bene in che razza di mondo noi due viviamo e tutto quello che abbiamo dovuto passare. Però, ce la stiamo facendo. Sono passati otto mesi dall’attentato dello scorso agosto e, come vedi, sto bene. C’è una cosa sola che non tornerà mai più indietro, ed è l’occhio che ho perso». Ha una lente scura Salman, a schermare l’occhio destro, che ha perso durante l’attentato, e a me sembra davvero l’unico segno tangibile della tragedia scampata, perché per il resto è brillante, sereno, divertito, arguto. Ha sulle labbra una traccia, impercettibile, delle coltellate ricevute; la cicatrice si traduce in una sottile smorfia che ricorda, come gli ho detto scherzando, il modo di parlare di Sylvester Stallone. È completamente calato, Salman, nei giorni che viviamo, nonostante abbia scritto un libro ambientato in un tempo assai remoto. Anzi, scegliere la lontananza gli consente, con maggiore chiarezza e sincerità, di affrontare le questioni nodali del nostro tempo. Il suo libro, La città della vittoria, ha come impalcatura narrativa una storia universale basata sul rapporto mai risolto tra uomo e donna, il cui equilibrio ha così tanto a che vedere con l’equilibrio del mondo. Entro nel vivo dell’intervista.
Salman, cosa è per te l’ignoranza?
«Il danno più grande, perché ogni cosa discende da essa. L’ignoranza consente alle persone di essere considerate folli o cattive. In tempi bui, e quelli che stiamo vivendo lo sono, l’arte della letteratura può avere un ruolo. Cito alla lettera lo scrittore americano Saul Bellow, che una volta disse: “La letteratura ha seriamente a che fare con le radici della natura umana”. E io credo che sia proprio quello che noi scrittori possiamo fare, e nessun altro; non la musica, non l’architettura: arrivare alle radici della natura umana».
«La città della vittoria» è il racconto fantastico di una parabola umana. Tra scrittore e lettore esiste un patto che i romantici inglesi chiamarono la momentanea sospensione dell’incredulità. Credi che il lettore oggi sia disposto a mettere in atto questa sospensione dell’incredulità?
«Quando ero giovane e mi affacciavo al mondo della scrittura, i lettori occidentali erano più inclini a leggere storie d’avventura, quasi in contrapposizione con i romanzi più convenzionalmente realistici degli anni Cinquanta e Sessanta. Fui tra i fortunati a beneficiare dell’interesse dei lettori in ciò che ha a che fare con il sorprendente, ma la letteratura, come tutto il resto, è soggetta alle mode e oggi c’è una tendenza al ritorno a un modo di scrivere molto semplice, per certi versi naturalistico. Io stesso avrei dovuto adattarmi, ma non ci sono riuscito, devo quindi fidarmi dei lettori che mi sono stati accanto dal principio del mio viaggio, probabilmente nel frattempo altri se ne sono aggiunti. E sono sincero: non avevo idea di quale accoglienza avrebbe avuto il mio nuovo libro, temevo fosse condizionata da ciò che avevo subito, ma non volevo essere valutato con il metro della compassione. Mi ha rallegrato che l’accoglienza sia stata positiva e seria allo stesso tempo, seria e lontana da ogni compassione».
Il racconto della parabola umana della protagonista di «La città della vittoria», Pampa Kampana, consente di rievocare una società in cui uomini e donne hanno avuto pari diritti e dignità. Com’è la vita per gli uomini quando le donne non hanno né dignità né diritti?
«È una privazione che danneggia sia gli uomini che le donne. La città della vittoria descrive un regno di settecento anni fa; in quella società le donne avevano una posizione decisamente più importante rispetto a molte società odierne, e non ho inventato nulla. Se studi i documenti storici dell’Impero di Vijayanagara, vi troverai soldatesse, generalesse, avvocatesse, mercantesse. C’erano in pari numero scuole per entrambi i sessi. E Pampa, che è il cuore del libro, dice chiaramente che è di questo tipo di organizzazione sociale che abbiamo bisogno. Altrimenti il danno che verrà colpisce tutti».
Hai utilizzato l’espediente del manoscritto ritrovato. Pampa scrive in sanscrito, tra le lingue antiche quella che più si avvicina alla lingua comune indoeuropea. Ci hai voluto ricordare che alla base della nostra comunicazione c’è un sistema comune?
«Con l’escamotage del manoscritto ritrovato ho fatto qualcosa di decisamente irriverente. In India ci sono alcuni tra i più importanti testi mai scritti come il Mahabharata, il Ramayana, il Panchatantra, e così ho pensato: perché non scriverne un altro? Ma scrivere un testo che sia al livello di questi è come credersi Omero, è come credersi Virgilio. (Ride, ridiamo). Naturalmente nessuno di noi può, perché quei racconti sono stati raccolti nel corso del tempo, come i racconti popolari. Eppure, nonostante questa consapevolezza, ho pensato: farò finta di inventarne uno. Poi, per rendere tutto meno improbabile, ho immaginato che questo antico testo venisse scoperto e tradotto per noi da uno scrittore di molto inferiore (ride ancora), ma che in questo lavoro di trasposizione cercasse di fare comunque del suo meglio. L’idea era di rievocare storie antiche con uno stile contemporaneo».
Finito il racconto, Pampa vorrebbe essere liberata. È davvero possibile liberarsi dalle proprie parole? Io non sono stato in grado di farlo e credo che tu, invece, ci sia riuscito.
«È una domanda molto interessante, mi ci confronto costantemente. I versi satanici è stato il mio quarto romanzo pubblicato, La città della vittoria il ventunesimo. Tre quarti della mia vita di scrittore si sono svolti dai Versi satanici in poi, eppure penso che nella mente di molte persone, quando sentono il mio nome, il rimando immediato sia a quel libro del 1988. Anche io mi sono sentito colpito da questa maledizione, tuttavia ho pensato che dovevo andare avanti lungo la strada che stavo percorrendo, e sono orgoglioso perché penso che se qualcuno, che non abbia mai sentito parlare di me, leggesse i miei libri in sequenza cronologica, probabilmente non si accorgerebbe della frattura avvenuta nel 1989. I miei libri hanno una loro continuità. Conoscono la strada che stanno percorrendo, e continuano a percorrerla».
Pampa Kampana è la tua protagonista; hai raccontato che è stata lei a essersi palesata a te e che tu l’hai accolta. Cosa vi lega?
«Pampa è stata la chiave di volta del mio libro. Quando ho iniziato a ragionare su questa storia, che copriva ben 250 anni, non avevo idea di come avrei tenuto insieme tutto. Inoltre, per raccontare 250 anni – pensai – ci sarebbero volute almeno duemila pagine. E così si palesò questo personaggio nella mia mente e mi disse: “Sono la risposta alle tue domande perché vivrò per tutta la durata del racconto e il tuo libro non sarà altro che la mia storia... Tu dovrai solo ascoltarmi”. È la seconda volta che mi accade una cosa del genere; la prima fu con I figli della mezzanotte. Ero molto più giovane e avevo molta meno esperienza come scrittore, stavo lavorando a questo libro incredibilmente complesso ed ero lontano dal trovare la strada giusta. Lo stavo scrivendo in terza persona, non in prima, e non funzionava. Un giorno pensai: ora lascio parlare il protagonista! Gli diedi voce e parola e il libro iniziò a correre. Così con Pampa, appena lei ha trovato la sua voce, io ho trovato la mia. Ha un tale magnetismo, un tale carisma... ho capito che se solo l’avessi ascoltata e seguita, lei mi avrebbe consegnato il libro. Ed è più o meno ciò che è accaduto. Dirò di più, ero preoccupato per la forma che il libro avrebbe preso ma, mettendo Pampa al centro, tutto il resto è andato perfettamente al suo posto».
Parlare di letteratura è qualcosa di incredibilmente appagante. Però a volte, di fronte alla gravità della cronaca, verrebbe quasi da pensare: ma davvero stiamo ragionando in maniera così seria su parole che raccontano storie di fantasia? Quando vi assale questo dubbio, provate a rispondere a questa domanda: sapete dirmi cosa esiste di più concreto delle parole? Sono il mezzo attraverso cui comunichiamo, e quanto alla fantasia, ovvero la nostra capacità di immaginarci non solo qui e non solo ora, è la spinta che ci ha consentito di progredire. Allora ecco che la scrittura e gli scrittori iniziano a diventare una cosa dannatamente seria. Il loro armamentario – la parola – è comune a ciascun essere umano e i loro esercizi di fantasia, le loro invenzioni sono esattamente ciò che ha dato impulso a quanto di grande l’umanità ha creato.
Quello che succede agli scrittori, ad alcuni scrittori, è di diventare dei simboli. Salman Rushdie è riuscito in molti casi a sottrarsi a questo ruolo, permettendo alla sua letteratura di continuare a frequentare la creatività, il mito, la fantasia, l’epica. Nonostante ciò, un pezzo di mondo ha continuato a vederlo come un simbolo. In qualche misura anche io mi sono trovato negli anni a essere percepito come tale. Sono stato portato a processo dalla premier italiana, dal ministro delle Infrastrutture e dal ministro della Cultura. La mia domanda è: perché gli scrittori diventano simboli e spesso, addirittura, capri espiatori?
«Per prima cosa, Roberto, mi congratulo con te per i tuoi nemici. È importante per ciascuno avere i nemici giusti. Quello che dici è vero, gli scrittori spesso servono come simboli. Ero preoccupato che Amos Oz, ad esempio, diventasse una sorta di scrittore nazionale per Israele. È molto difficile portare questo peso perché da scrittore, quello che vuoi è sederti nella tua stanza ed essere te stesso. Ci sono scrittori che hanno parlato assai bene di questa divisione tra il sé pubblico e il sé privato. In Borges e io c’è il gigante pubblico che è Borges e poi c’è lui, seduto a casa, a malapena in grado di vedere mentre cerca di pensare a cosa fare. Ero amico del grande romanziere tedesco Günter Grass che una volta mi disse: “Ho la sensazione che ci siano due persone, il Günter che sta a casa, la persona che i miei amici e la mia famiglia conoscono, che è l’autore dei miei libri. E poi c’è il Grass che fa guai in giro per il mondo”. Ovviamente, qualcosa del genere è accaduto anche a me, a causa della natura insolita dell’attacco che ho subito. È raro che un processo storico mondiale trovi poi sfogo su un solo essere umano. Normalmente, gli eventi storici mondiali sono grandi e coinvolgono molte persone, invece nel mio caso è come se mi fossi trovato con una montagna capovolta sulla mia testa, e questo ha fatto di me un simbolo. Si è aggiunto poi il recente attentato che ha in qualche modo rinnovato quell’idea di me. Ho fatto un grande sforzo per non essere considerato un simbolo. Ho provato solo a essere vero, a essere una persona piuttosto che un’idea, perché le idee non scrivono buoni libri. Le persone scrivono buoni libri. Ma nonostante tutti i miei sforzi, vivo comunque questa divisione tra una parte di me che sa che la battaglia c’è e non è finita, e l’altra che sta in una stanza e cerca di fare sogni interessanti. Devo trovare il modo per essere entrambe le persone. Preferirei essere la persona seduta nella stanza a fare sogni, ma il mondo ha altri progetti per me e, in una certa misura, devo rispettarlo».
Ma perché sempre gli scrittori?
«Perché sono voci individuali che parlano, voci che nessuno può arrivare a possedere e controllare. Non un movimento politico, non un gruppo ideologico o una corporazione. Voci individuali che rispondono solo a sé stesse. Ecco una definizione di libertà: dici quello che hai da dire, non perché qualcuno ti stia facendo pressione per farlo, ma perché è quello che pensi sia giusto. Nel corso della storia, i governi autoritari hanno avuto tanta paura di quelle voci perché non possono arrivare ad appropriarsene. Noi scrittori non abbiamo eserciti, non abbiamo armi, tranne le parole. Eppure quelle parole sembrano molto pericolose per chi le vuole controllare. Uno degli aspetti più importanti del potere è che vuole definire la narrazione delle nostre vite; gli scrittori rifiutano quel controllo e offrono la loro narrazione: questo ci rende pericolosi».
Saluto Salman Rushdie con la consapevolezza che questo genere di incontri ha il potere del cambiamento, nonostante lo schermo e la distanza che ci separano. Scambio di parole che – è certamente retorico ripetercelo – si insinuano in ogni piega, stanno lì, fermentano e producono qualcosa che sfugge. Le parole di Salman mi restano attaccate addosso a lungo. Nel 2008, quando lo incontrai per la prima volta, mi disse: «Vivi!». Oggi mi ha dato una lezione di grande consapevolezza. Vorrei starmene nella mia stanza a scrivere, dice, ma per il mondo sono anche un simbolo, e devo rispettare questo sentimento. Il rispetto per un mondo che ti ha ferito, che ti ha colpito, è prerogativa dei grandi. E oggi Salman, un po’ pirata, un po’ sognatore, è un buco bianco, inscalfibile, impenetrabile, dal quale esce però energia, materia e luce.