La Stampa, 21 aprile 2023
Un boss piccolo piccolo
In questo ultimo effluvio di retorica mediatica che rischia di negare a Matteo Messina Denaro l’unica condivisibile identità, cioè quella di uomo senza qualità e contenitore vuoto incapace di nutrire sentimenti, abbiamo assistito ad una vera e propria gara (carta stampata e tv) di esaltazione del nulla. I libri, le letture varie di Matteo, le donne, le capacità attrattive di un criminale che, alla fine, si consegna al pubblico come un predatore seriale di donne prigioniere del loro piccolo mondo e speranzose di un riscatto che non può non passare che per la «forza» di un uomo ricco di soldi e basta.
Tutti questi argomenti, scientemente organizzati da investigatori e magistrati, centellinati e dati in pasto ai cronisti, hanno finito per sovrastare gli aspetti più seri della vicenda, per dar vita ad un insopportabile gossip che non serve a nulla. Ovvero servirebbe a meglio delineare la personalità patologica di un capomafia che non è diventato capo supremo, visto anche il pedigree di cui dispone, forse proprio per questa sua ossessione erotica che lo ha sempre accompagnato. Matteo non ama le donne, la sua anaffettività glielo impedisce. Matteo le donne le possiede, le sfrutta, le cattura insieme con tutto il fardello familiare che le circonda. E loro, le donne, lo adulano (cosa che a Matteo piace tanto), gli riconoscono una supremazia («di fronte a te ogni altro uomo scompare»). A pensarci, è lo stesso meccanismo mentale che ha consentito ad un’intera comunità, quella di Campobello, di «lasciar vivere», per almeno 15 anni, una tranquilla latitanza, dove il vero nascondiglio di Matteo è stata la normalità, il non voler sapere di una cittadina chiusa. Per esperienza possiamo dire che in tanti anni non è possibile che a Campobello non si sapesse della presenza del gran latitante. Ma i Messina Denaro da sempre fanno parte di quella comunità, conoscono una per una le famiglie più antiche, hanno governato il territorio sostituendosi allo Stato, hanno ricomposto liti, sono intervenuti nelle decisioni amministrative complicate, insieme col potere politico sono stati decisivi nel trasferimento di poliziotti e prefetti scomodi. Campobello ha sempre visto i Messina Denaro accanto alla migliore società, li hanno visti flirtare col potere. Prima il padre, don Ciccio campiere e tuttofare dei nobili D’Alì (l’ultimo erede, il senatore Antonio, è stato condannato per mafia proprio per vicende legate ai Messina Denaro), poi i figli, Matteo e Salvatore, quest’ultimo un po’ più defilato del fratello.
Poco probabile, dunque, che Campobello tra Matteo e lo Stato scegliesse quest’ultimo. Ma il «paesello» non è soltanto fatto di vecchi con la coppola. È lecito chiedersi perché anche la cosiddetta società civile, gli imprenditori, i professionisti, polizia, carabinieri, vigili, avvocati, insomma persone un po’ più accorte, soffrissero della stessa distrazione dimostrata dal «paese vecchio»?
Ma questi argomenti non sembrano essere all’ordine del giorno del materiale investigativo rimasto coperto dalla «panna montata» prodotta dalle donne di Matteo e usata come arma di distrazione di massa. Siamo certi che, esaurita la fase «leggera», si cominceranno ad affrontare i nodi seri che hanno consentito una tranquilla latitanza a Matteo. Certo, è innegabile l’importanza che può avere avuto il ruolo di Laura Bonafede, l’insegnante, figlia di boss che gestiva la «posta» del latitante e teneva i contatti col resto della famiglia. E anche in questa storia, comunque, vien fuori tutta la pochezza del boss incompleto. Tanto inadeguato da infrangere le più elementari regole di Cosa nostra per soddisfare il proprio ego. Laura Bonafede è regolarmente sposata e madre di una figlia anch’essa consegnata all’egoismo del boss che l’ha usata in sostituzione di Lorenza, la figlia naturale che non ha mai voluto riconoscere l’autorità paterna. La ragazza è diventata la figlia ideale per Matteo, quella destinata a riempire il vuoto lasciato da Lorenza, tanto ostile al padre da aver disatteso la regola di chiamare il primogenito figlioletto col nome del nonno. Lo ha chiamato Nicola, come il padre del marito, quasi a voler sottolineare la poca considerazione per il proprio genitore.
Ma la stessa relazione con Laura, «usata» non solo come complice ma come conquista amorosa, è di per sé «scandalosissima» rispetto all’ipocrisia e alla falsa morale mafiosa. L’insegnante innamorata è anche moglie di Salvatore Gentile, un ergastolano (killer) finito in carcere proprio per aver ucciso su commissione di Matteo. Secondo la legge di Cosa nostra, dunque, Matteo avrebbe dovuto essere ucciso per aver «approfittato» della moglie di un uomo d’onore detenuto. Ma le regole, si sa, valgono solo per i deboli e così Laura Bonafede diviene «proprietà» di Matteo. Il quale, però, non disdegna altre frequentazioni femminili (chissà perché alcune, almeno tre, «pescate» nell’ambito di professioniste impegnate nell’insegnamento).
Il sesso è stato sempre un punto debole di Matteo. Quand’era ragazzino andava a Palermo, coinvolto dall’amico del cuore Lillo Santangelo che lo portava a donne. La cosa preoccupò molto il padre di Matteo, don Ciccio, che per interrompere quel sodalizio chiese a Totò Riina il «favore» di far uccidere l’amico di Matteo, ma con una cautela: «Fatelo lontano da Castelvetrano per non dare troppo dolore al padre».
Adesso a Matteo stanno cucendo addosso l’abito del Casanova. Ma il paragone non regge per un personaggio così inadeguato. Un anaffettivo come il boss c’entra poco col «grande amatore». L’erotomane Matteo, semmai, fa pensare ad un personaggio che i meno giovani dovrebbero ricordare. Era il protagonista di un fotoromanzo popolare che si chiamava «Supersex», un antenato del porno a venire. Supersex era un accumulatore seriale di donne che «catturava» con una formula magica che paralizzava le prede. La sua «superpotenza» derivava dalla sua origine: il pianeta Eros.
Scherzi a parte, tutta questa storia di Matteo e le sue donne restituisce la vera natura del personaggio e offre l’immagine più veritiera di quanto possa essere efficace l’inganno mafioso. Com’è avvenuto dopo la cattura di Totò Riina, i particolari della vita reale dei boss ci consegnano un cumulo di miserie umane. La grandeur di Riina fu disintegrata dal racconto dei pentiti, Buscetta innanzitutto, che descrissero un piccolo uomo sanguinario. Nel caso di Messina Denaro è lui stesso che ha distrutto il proprio mito con le sue citazioni letterarie copiate, con l’insaziabile voracità di possesso del prossimo e con l’egoismo di chi ha fatto morire tante persone ma non tollera che potrebbe toccare pure a lui di lasciare questo mondo.
Prima o poi si placherà questa corsa alla ricerca del gossip e allora sarebbe auspicabile che le indagini (e le inchieste giornalistiche) affrontassero i temi cruciali di cosa ha significato per la Sicilia occidentale la presenza di famiglie come i Messina Denaro. Un dominio economico e politico che ha portato il territorio trapanese al primato degli affari legali e illegali: droga, lavori pubblici e appalti. Un fiume di soldi che rendeva possibile in quel territorio, non sterminato, la presenza di più di cento sportelli bancari. Un groviglio di mafia e potere che si liberava dei servitori dello Stato fedeli (Giangiacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli) e aggrediva ferocemente i più recalcitranti (Carlo Palermo e Rino Germanà). Questo cancro ha poco a che fare con le gesta di un Casanova di paese. —