La Stampa, 21 aprile 2023
È la satira bellezza, anche quando è volgare
La politica che spiega alla satira cos’è la satira non è mai un bello spettacolo. Anche in presenza di satira disgustosa. Forse soprattutto: altrimenti si è Charlie solo quando qualcuno arma il Kalashnikov. Lo fu persino Daniela Santanché, per dire.
È che in democrazia ciò che non è diffamatorio, è permesso. Anche al netto del nitore artistico o persino morale della vignetta. E cosa sia diffamatorio lo stabilisce un giudice, non la seconda carica dello Stato coram populo.
Così, il disegno contro la sorella di Giorgia Meloni, anzi: soprattutto contro suo marito, apparso ieri sul Fatto Quotidiano, può legittimamente apparire greve, irricevibile, sessista, eccetera. Ma non è il Parlamento il luogo per discuterne. Non è la sede di partito il posto giusto per indignarsi. Non è, l’opposizione, il Malaussène virtuale che deve scusarsi per ciò che non ha commesso, facendosi schiacciare come sempre nella narrazione che la vede colpevole delle guerre puniche, del terrorismo, forse anche dei 15 punti restituiti alla Juve.
Specie se, per scomodare Debord a casaccio, ha assistito (quella politica che oggi indossa le gramaglie) al progressivo smantellamento delle barriere di opportunità tra potere, informazione, appunto satira. Contribuendo al loro sfaldamento. Non solo il mezzo non è più il messaggio: il mezzo si sovrappone al messaggio in un turbinio di sciocchezze a favore di camera. E di Camera. E di Senato. In un doppiopesismo che la politica ha sempre avuto ma, da qualche decennio, (facciamo quattro), da quando cioè abbiamo inventato a Milano due un format per cui la Fox dovrebbe pagarci la Siae, è diventato programma di Governo.
Fratelli d’Italia, la Lega, la Destra italiana tutta, compresi, per primi, i Cinque Stelle a trazione Casaleggio, utilizzano nei confronti degli avversari politici una logica di fideismo Qanonista che prevede lo strepitio contro qualcuno, categoria o persona: basta che non possa difendersi, come volàno del consenso. Per quella discutibile vignetta prendono cappello gli stessi che hanno crocifisso “la Boldrina”, chi ne esibiva la bambola gonfiabile sui palchi, quelli che davano degli oranghi agli avversari di colore, quelli per due voti parlano per anni di sostituzione etnica e poi dicono che non sapevano e che si riferivano al ristorante indiano sotto casa.
Di più: Arianna Meloni è comprensibilmente risentita per l’improntitudine grossier applicata alle cose di famiglia, ma oltre che dell’agguato satirico è vittima di una società dello spettacolo che le è toccato cavalcare “autodenunciandosi” per smentire gossip conosciuti solo nell’inner circle del generone romano. E da quell’informazione che ha accompagnato il populismo con gli stessi toni, la maggioranza berciante che ciancia di “giornaloni” e intanto canta in un coro in cerca di allodole cui spacciare informazione per satira, e viceversa. In una sorta di cortocircuito in cui vale tutto e per questo non vale niente.
Cosa sia satira e cosa no, quindi, e cosa sia informazione, e cosa no, cosa sia – soprattutto – la propaganda spacciata per battaglia contro i poteri forti, è un dibattito che meriterebbe relatori più autorevoli. Su entrambi i fronti. Casomai bisognerebbe chiedersi cosa siano gli organi di partito camuffati, persino quelli pagati con fondi pubblici, persino quelli che lo Stato ce l’hanno come editore, che usano la pernacchia – senza l’utopia moralista di chi rischia facendo battute – per nascondere la loro contabilità del consenso.
Ma se così fosse, gli indignati di Palazzo dovrebbero chiedersi come sono arrivati fin lì. Con quale modello culturale. E chi li ha sospinti.
Vasto programma, praticamente infinito. —