la Repubblica, 21 aprile 2023
Piero Gobetti, la giovinezza dell’antifascismo
Il rumore del vecchio ordine che crolla puòessereunboato o uno scricchiolio. Può essere anche simile a un fruscio di carta di giornale. Piero Gobetti non ha ancora compiutoventun anni, quando fonda – il 12 febbraio del 1922 —La Rivoluzione Liberale. È un dato anagrafico che vale sempre la pena di ricordare. Era nato a inizio secolo, nel 1901, da Giovanni Battista e Angela, titolari di una drogheria in via XX Settembre, a Torino. In casa i libri sono pochi, c’è una enciclopedia per famiglie, il Melzi, che l’adolescente Piero annota, postilla, corregge: «L’unica enciclopedia per imparare tutto sbagliato». Si farà notare all’università come studente di Legge alla cattedra di Economia politica di Luigi Einaudi. Segue da uditore le lezioni di letteratura. Si laurea sulla filosofia politica di Vittorio Alfieri, la cui opera – letta precocemente – lo segna nel profondo. La parola “rivoluzione” è massiccia, ingombrante, solenne. L’aggettivo “liberale” la stempera e a un tempo la rende paradossale. Dietro c’è molto: la polemica con il Risorgimento italiano. La fascinazione confusa per l’esperienza russa del ’17. La fiducia nelle spinte operaiste: «Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondonuovo.Nonsentoin meper ragioni speciali che tu sai la forza di seguirli nell’opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo. Allora il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione oggi si pone in tutto il suo carattere religioso». E ancora: la lucida sequenza di obiezioni poste a quella del fascismo delle origini. «Restare politici nel tramonto della politica». Il cantiere politico del giovane torinese è affollato di questioni. E di «un’altra rivoluzione» parla proprio nel ’22, subito dopo la marcia su Roma, e la immagina intanto come un’opposizione radicale al «trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo» incarnati torvamente dal primo Mussolini. Il clima generale è quello raccontato daunromanzodiGiuseppeAntonio Borgese, Rubè,che ha per protagonista un giovane avvocato meridionale. Arruolatosi infiammato dalla propaganda marinettiana, esce dall’esperienza del fronte stravolto e depresso. Tentato dai socialisti e subito dopo dalle camicie nere, il “glorioso combattente” intende fare la sua rivoluzione, ma inciampa di continuo nelle illusioni e nelle ambizioni sbagliate. La sua agitazione, il suo nervosismo sono quelli di un’intera generazione. Vuole fidarsi della pace, della Vittoria, così come si era fidato della guerra («l’ho fatta, perché ero malcontento e cercavo aria»). Si commuove per la strada ascoltando un mutilato di guerra suonare una vecchia canzone. «Avrebbe davvero gridato se avesse potuto. Avrebbe mostrato i pugni al cielo». Ma la sua rivoluzione è un atto mancato. La rivoluzione intransigente di Gobetti pare essere anzitutto un esercizio spirituale, personale prima che collettivo: «Mistiche palingenesinon avvengono. Né la rivoluzione è tutta un erompere di energie. La rivoluzione non si fa in un giorno, o se si fa è una cosa ridicola. Conta per i sacrifici che ne costarono tutti i passi». È impressionante la quantità di problemi – tuttora al centro del dibattito internazionale – che Gobetti pone nel suo frenetico attivismo intellettuale. I limiti e i vantaggi del sistema parlamentare. I modi attraverso cui la volontà collettiva può farsi governo. Le strade della lotta politica. La crisi dei partiti. La formazione delle élite, la dialettica che esse sono in grado (o non sono in grado) di animare con le masse popolari; il loro, delle élite, farsi portatrici di una rivoluzione come «movimento culturale, tendenzialmente pacifico». Pur con i limiti di unrapporto con le masse «più sentimentale che reale» (tipico però di larghissima parte dell’intellighenzia novecentesca e odierna), Gobetti lascia in eredità domande decisive sul rapporto fra libertà e uguaglianza, sulla politica come forma di educazione, sulla «difesa, l’affermazione, l’esaltazione degli spazi di autonomia dell’individuo». Quando parla, nel ’23, di «iniziazione laica per la religione della dignità» ci mette di fronte una iniziazione inesauribile, e nei fatti mai davvero compiuta. Illuminante in questo senso il passaggio in cui si chiarisce, a scanso di equivoci politici, la radice di “liberale” come “liberantesi”, «che si libera». E questo “liberarsi” passa prima di tutto per una vita: la singola, irripetibile, troppo breve e intensissima vita di Gobetti. Piero che esce dal Regio di Torino dopo aver visto ilRigoletto e pensa a Ada e corre a casa per scriverle. Piero che regalaad Ada lo spartito del Parsifal di Wagner ma poi più avanti la costringe ad allontanarsi dalla sua vocazione musicale. «In genere prevaleva in me il senso dell’avventura umana» scrive Piero di sé stesso: radiografo di stati d’animo, quando si tratta di contribuire alla critica di sé, con uno stile nervoso, spezzato, lirico. Impareggiabile ritrattista quando si cerca negli altri: nell’energia «eccessiva» di Giacomo Matteotti, nel suo non essere capito, nel suo destino; in Rosa Luxemburg, in quella «esuberanza di giovinetta». Con il delitto Matteotti, l’opposizione di Gobetti al fascismo si fa ancora più radicale. Tra i primi osservatori critici di Mussolini, Gobetti ne diventa via via critico incalzante e profetico. Coglie per tempo nel fascismo le componenti retoriche, demagogiche, oligarchiche, l’uso politico della violenza. Lo definisce, con impressionante lungimiranza, «autobiografia della nazione». «Il fascismo», scrive addirittura nel ’22, «è una catastrofe, è un’indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità». Intende combattere a viso aperto, rifiuta «il terreno delle congiure», si appella costantemente a quegli «uomini nei partiti e fuori dei partiti, gente che non ha ceduto e non cederà». Mussolini firma – proprio a ridosso del sequestro di Matteotti— untelegramma al prefetto di Torino chiedendo di rendere «impossibile la vita a questo insulso oppositore di governo e del fascismo». Da quel momento l’attività intellettuale di Gobetti si complica in modo significativo: la rivista viene spesso sequestrata, la tipografia che la stampa subisce minacce, Gobetti stesso è vittima di agguati anche violenti.La Rivoluzione Liberale è costretta infine – siamo nell’autunno 1925 – a cessare le pubblicazioni per «attività nettamente antinazionale». Il lavoro continua sulla rivista più letteraria, Il Baretti, che Piero aveva fondato un anno prima; l’invito ai lettori, a questo punto, è di leggere fra le righe, perché parlare apertamente non è più possibile: «La libertà d’opinione è stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta?».