il Giornale, 20 aprile 2023
Storia del film noir francese
Il cosiddetto film noir è un’invenzione americana in lingua francese. Detto in altri termini, più che un genere e/o una tipologia, come il western o il musical, è una categoria critica o, se si vuole, un’idea. A tenerla a battesimo, nel 1946, su due riviste parigine di cinema, fu una coppia di scrittori, Nino Frank e Jean-Pierre Chartier, e dieci anni dopo sarà un altro duo, Raymond Borde e Etienne Chaumenton, a darne la definitiva stabilizzazione in un libro, Panorama du film noir, con tanto di periodizzazione: le fonti, gli inizi, l’apogeo, la decadenza e la fine. Una serie, insomma, così come Série noir si chiamava la collana Gallimard dei cosiddetti polar, anch’essi in prevalenza americani (l’ultimo appena uscito si intitola Hollywood s’en va en guerre, di Olivier Barde-Cabuçon, un omaggio ad ambedue i generi...). L’accento alla francese aveva la sua ragion d’essere nello stabilire un legame con ciò che oltralpe era stato già firmato, pellicole come Il porto delle nebbie, Albergo Nord, Alba tragica, dove il tema di fondo non era il thriller o il «giallo», per dirla all’italiana, e insomma il crimine, ma l’atmosfera, il realismo in stile crepuscolare e, soprattutto, i caratteri, ovvero le facce. Se si guarda l’imponente quanto freschissimo di stampa Film noir. Portraits, di Tony Nourmand e Paul Duncan (Art Press, 255 pagine, 38 euro), il tutto balza agli occhi e viene alla mente la splendida definizione che, in Viale del tramonto, Gloria Swanson, nei panni della diva del muto Norma Desmond, dà al gigolò Joe Gillis-William Holden: «Non avevamo bisogno di dialoghi. Avevamo volti». Da Humphrey Bogart a Robert Mitchum, da John Garfield a James Cagney a Edward G. Robinson, da Rita Hayworth a Barbara Stanwyck, a Joan Fontaine, il noir sono quei volti e non altri. Insostituibili, irripetibili. Poi, naturalmente, c’è il bianco e nero, il chiaroscuro delle pellicole come della vita. Ironicamente, Robert Mitchum riassumerà il tutto da par suo: «Non c’erano soldi, non c’erano set, non avevamo tempo da perdere, non avevamo le luci. Così erano le sigarette a fare da riflettore». In Out of the Past (Le catene della colpa), l’ostilità fra lui e il suo rivale Kirk Douglas, non viene sottolineata dai revolver che pure entrambi maneggiano, ma da come fumano uno in faccia all’altro in una stanza dove la brace dei mozziconi si fa strada fra le nuvole di fumo... «Avevamo però delle belle storie fra le mani» dirà ancora Robert Mitchum e in Film Noir. Portraits i nomi che ricorrono sono quelli ormai classici di Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James Cain. Senza però dimenticare che dai fotoreporter di cronaca, come Weegee, il cui motto era «Il crimine è la mia ostrica», ai veri e propri fatti di «nera» (Double Indemnity, La fiamma del peccato, era ispirato alla vita di Ruth Snyder che uccise il marito con la complicità dell’amante e finì fotografata persino sulla sedia elettrica), alla stessa Hollywood, quanto a storie c’era l’imbarazzo della scelta. Le liti fra Bogart e la moglie, con tanto di lanci in pubblico di bicchieri colmi di liquore da parte di quest’ultima mentre lui, senza scomporsi, annunciava serafico «Mi piace vivere pericolosamente e lei è pazza di me», erano all’ordine del giorno e lo stesso Bogart venne incriminato per aggressione; Mitchum finì in carcere per possesso di marijuana, l’amore di Lana Turner (la casalinga in calore di Il postino suona sempre due volte), otto matrimoni, sette divorzi, un numero imprecisato quanto cospicuo di amanti, con il gangster Johnny Spampanato, ebbe una conclusione tragica, con la figlia di lei, Cheryl, che accoltellò lui che ne stava strozzando la madre. Il Los Angeles Times riassunse il tutto così: «Cheryl non ha colpe. La delinquente è Lana». Nel loro libro che tenne a battesimo il noir, Borde e Chaumeton ne individuarono l’atmosfera nella America del secondo dopoguerra: disoccupazione, aumento della criminalità, disorientamento e shock psicologico di chi tornava dal fronte. Come però mette bene in evidenza Leonardo Gandini nel suo Il film noir americano (Lindau, 159 pine, 16 euro), è una lettura frettolosa, anche se a lungo rimasta egemone. Basta dare un’occhiata alle date per accorgersi che da Il mistero del falco a Addio mia amata alla già citata Fiamma del peccato si tratta di film che fanno parte dell’America prebellica e poi entrata in guerra e che la cosiddetta depressione della seconda metà degli anni Quaranta non è per nulla «paragonabile alle tragedie e alle paure dei primi anni ’30 (che comunque, sia detto per inciso, non indussero certo Hollywood a produrre prevalentemente un cinema cupo, pessimista e inquietante)». Anche la figura della «femme fatale» («Uso gli uomini come le altre donne usano il fondo tinta» dice la Rita Hayworth di Gilda) da Lauren Bacall a Veronika Lake, a Gene Tierney, la si comprende meglio se si abbraccia anche l’intero arco degli anni Trenta dove la disoccupazione mina soprattutto lo status sociale maschile, la ricerca di nuove fonti di reddito comporta continui cambi di residenza e con essi traslochi che rendono più fragili i concetti quali famiglia, stabilità, coppia, l’assenza cronica da casa sempre del partner maschile rende l’adulterio più facile e così via. Nato e cresciuto in un’epoca in cui informazione e pubblicità, cartellonistica, manifesti, advertising, erano, con l’eccezione della radio, fondamentalmente di carta, il film noir, notano Tony Nourmand e Paul Duncan, ricevette un contributo essenziale dai cosiddetti fotografi di studio, nomi come Robert Coburn, Ernest Bachrach, «Whitey» Schafer. «La loro notevole abilità di trasformare il gioco di luce e di ombra in un effetto drammatico aveva il potere di attrarre l’occhio di chi si ritrovava davanti a quelle immagini». I quotidiani come il New York Times, che avevano la necessità di immagini riproducibili in centinaia di migliaia di copie, mandavano i loro fotografi sul set o per immortalare la star maschile o femminile del film che si stava girando. Il resto, per nulla secondario, era opera di maghi dell’illustrazione, con la loro capacità di trasformare limmagine filmata in un disegno altrettanto evocativo, se non di più. Fra di essi Film noir. Portraits immortala anche i nomi di italiani come Luigi Martinati e Anselmo Ballester. È nota la definizione che Raymond Chandler diede dei romanzi di Hammett: «Ha tolto il delitto dal vaso di cristallo e lo ha gettato nel vicolo». Rispetto ai film di gangster o ai polizieschi tout court, il noir fece qualcosa di simile. Se gli ambienti possono essere simili, sono però più claustrofobici, con le ombre a circoscrivere gli spazi, con porte, finestre, scale, intelaiature in metallo dei letti, sbarre, colonne. Non ci sono mai spazi domestici, tanto meno spazi privati. Rispetto al tutore dell’ordine da un lato, al criminale dall’altro, è un proliferare di braccati in fuga dalla vita, dalla malavita e dalla polizia, evasi di prigione, individui schiantati dalle esperienze passate, uomini in attesa. Il tutto in un’atmosfera onirica e insieme allucinata, dove a interessare non è tanto il delitto in sé, ma la tortuosità della mente umana. Anche il tempo è raramente cronologico, con il flashback che si incarica di dargli un ordine: c’è sempre un passato perduto, un destino già segnato, la disperazione come sottofondo. Gli eroi sono sempre stanchi, il trionfo ha sempre un gusto amaro. In un numero monografico di Life del 2016, dedicato a festeggiare gli allora 75 anni dei «più grandi crime-films», tutti accomunati sotto l’etichetta film noir, il tentativo di saldare quel passato classico con il presente di un neo-noir lascia più perplessi che convinti. Non tanto per la qualità, perché da Eastwood a Tarantino, da Scorsese a David Lynch, il panorama è di tutto rispetto. C’è tuttavia un eccesso di realismo, un’accentuazione di violenza, una virulenza, come dire, fotografica, che ci fanno capire come si navighi in altri mari. Più tempestosi magari, Ma meno profondi e, insomma, meno neri.