La Stampa, 20 aprile 2023
Ricordare Miriam Mafai
Comincio a dirvi chi non era, Miriam Mafai, perché non ci siano fraintendimenti. Miriam, che ha dedicato la sua vita fin da giovanissima alla causa del Partito Comunista Italiano, non era la ragazza rossa. Era una ragazza libera e lo è stata fino all’ultimo istante della sua vita. Non ha mai smesso di usare la ragione e non si è mai fatta tappare gli occhi dall’ideologia. Pur avendo – e sì che ce l’aveva – una fede incrollabile. Che viene fuori da qualsiasi cosa abbia scritto.Miriam credeva che l’ascolto, l’impegno, il lavoro, le parole, potessero cambiare il mondo. Non è mai stata pessimista perché non è mai stata arresa.
Quando ho cominciato a leggere tutto di lei, la prima cosa che ho invidiato – quante cose belle smuove l’invidia – è la passione civile. E quello che ho pensato è che quello che manca nel giornalismo, oggi, è la passione civile. Credere in qualcosa: lottare perché si affermi. Mi direte che questa è politica: andatelo a dire a George Orwell.
C’è una politica – la ricerca del bene della polis, della comunità – che si può fare fuori dai partiti e dalle istituzioni e Miriam Mafai l’ha fatta tanto più da giornalista che da funzionaria di partito, cosa che pure è stata, perché altrimenti non avrebbe saputo raccontare l’emancipazione delle donne durante la tragedia della Seconda guerra mondiale in Pane nero. Altrimenti, non sarebbe andata a descrivere cos’erano quelli che a noi sembrano oggi i pittoreschi sassi di Matera, un luogo dove le persone, i bambini, vivevano come bestie. Non avrebbe fatto un giro nelle miniere d’oltralpe in cui i reietti, nel dopoguerra, eravamo noi, i mangiaspaghetti, gli italiani umiliati e offesi degli anni dell’emigrazione di massa.
Se non ti spinge la certezza che la parola possa muovere qualcosa, che possa essere spada, come scriveva Leonardo Sciascia, non puoi neanche avvicinarti a capire chi era Miriam Mafai. L’incipit della sua biografia, Una vita quasi due, curata dalla figlia Sara Scalia, che non smetterò mai di ringraziare per l’ottima vellutata di zucca e per la fiducia con cui mi ha affidato i suoi ricordi, è questo: «Sono nata sotto il segno felice del disordine». Miriam viene da una famiglia fuori dalle regole ed è sempre rimasta fuori dalle regole, se per regole si intendono le convenzioni senza senso, la forma priva di sostanza. E non ha mai sbandato. Non ha mai smesso di seguire il filo della sua libertà e del suo impegno.
Aveva, come molti della sua generazione cresciuta dentro la carta stampata, il culto del giornale. Il giornale veniva prima di tutto. E c’è una cosa che spesso non si racconta di Miriam Mafai, perché la sua biografia e il suo carattere sono stati talmente particolari da prendersi tutta la scena: non si parla abbastanza dello stile. Della sua prosa asciutta arsa secca e al tempo vividissima. Della precisione del dettaglio. Del ritmo che segue uno spartito suo. Dei colori che sembrano venire da uno dei quadri di Mario Mafai.
Una volta, quando lavoravo per Repubblica, filmammo un’intervista a lei di Peppe D’Avanzo e poi, il giorno dopo, ci organizzammo per il giro. Io ero incinta di 6 o 7 mesi del mio primo figlio e mi sembrava di essere ripiombata nell’Italia degli anni ’50 perché tutti mi chiedevano: ma come fai? Ma come farai con gli orari? E chi te lo tiene? E sei sicura di poter lavorare con quella pancia? Ma ha senso andare in onda con quella pancia?
Le dissi del mio fastidio riguardo a un collega, un ex direttore di giornale invecchiato e inacidito, che mi aveva ammonito che no proprio con quella pancia in onda non sarei potuta più andare. E lei si mise a ridere: ma l’hai vista sua moglie? Poi mi raccontò di quando, giovane funzionaria del Pci, faceva il giro dei comizi nei paesini abruzzesi con il figlio Luciano e le contadine facevano a gara a tenerglielo e a coccolarlo, e anche nel partito degli anni ’50, come in un giornale degli anni 2000, la maternità era guardata con sospetto, come una deviazione dal dovere.
Ho avuto in custodia una scatola blu dove ci sono alcune cose di Miriam. Tra queste, un piccolo portafoglio di cuoio, di foggia maschile, che un mese fa ho preso tra le mani guardandoci meglio dentro e ho trovato, ripiegato, un foglietto di carta intestata al partito comunista italiano. Federazione provinciale di Teramo... sembra il foglio di un telegramma. La data, 17 gennaio 1949. La lettera è battuta con una macchina da scrivere dall’inchiostro un po’ sbavato, che riempie gli spazi delle o, delle a, delle e. E dice così: «Simonetta carissima, ho ricevuto la tua lettera, scusa se non ti ho risposto subito ma sono stata in giro e ho avuto tre giorni di riunioni dalle otto di mattina alla mezzanotte, e poi ieri la provincia. Adesso approfitto di un quarto d’ora di orologio per scriverti due righe riservandomi di rispondere più esaurientemente alle tue. Ho scritto anche a Dina spiegandole perché mi sposo, ma a te scriverò più a lungo. Tutte le osservazioni che tu mi fai me le sono fatte anch’io ma le ho superate, sia perché sono veramente profondamente innamorata di Scalia, sia perché sono convinta che stare con lui e rinunciare momentaneamente ad alcune mie ambizioni e soddisfazioni personali, mi comporterà nel complesso un vantaggio nel lavoro di partito. Giocano nella decisione anche considerazione di carattere esterno (l’opinione delle donne, non delle donne in generale però ma delle compagne attive di partito che non ammettono una convivenza al di fuori del matrimonio) ed anche l’idea dell’"erede” come dici tu, che ho ferma intenzione di mettere al mondo nel prossimo anno, anche se questo porterà a un momentaneo rallentamento del mio lavoro. Tutto questo forse ti renderà un po’ triste, ma io ti chiedo una cosa: non hai tanta fiducia in me da credermi capace di essere un quadro dirigente di partito anche se avrò un figlio? Io sì. Sono giovane ancora e al partito giova avermi come un quadro dirigente completo anche se questo significa che non può utilizzarmi come Dina o te per un certo periodo di tempo. Ti scriverò molto più a lungo. Vorrei sapere intanto cosa hai fatto per i documenti. Eventualmente scrivi a Dina che se ne interessi lei per quelli che riguardano Firenze: io l’ho già avvisata. Vorrei tanto averti vicina, abbracciarti. Non so perché ma ho l’impressione di darti un dispiacere. Simonetta cara, abbi fiducia in me. Non finirò come Vittoria, ma invece conquisterò completamente me stessa come donna e come comunista. E tra qualche anno nessuno riconoscerà in una Miriam con figlio che va all’asilo la ragazza pazza che una volta portava la frangetta ed aveva sempre un mucchio di guai. E quando sarò candidata a qualche Soviet potremo pubblicare la fotografia mia col bambino, il che piace sempre molto alle masse femminili... Ti ricordi quando mi facesti vedere la fotografia della Chicchi con il bimbo? Ti chiesi freddamente a che serviva. Tu ne eri entusiasta. Ma la Chicchi non è più un quadro dirigente del nostro partito, ed avevo ragione io. Anche questo matrimonio, ed un figlio mio e di Scalia invece servirà al Partito – perché servirà a farmi diventare migliore di quello che sono, come voglio essere, come tu Dina e il Partito vogliono che sia. Scrivimi subito, cara».
Poi c’è un’aggiunta minuta a penna: «P.s. esplicativo: il figlio non c’è ancora. Stai sicura!». Ecco, qui c’è un mondo. C’è il voler essere migliore, e soprattutto l’ambizione di poter essere tutto. Di poter avere tutto, di fronte a chi ti dice che devi scegliere, tu dici: voglio tutto. È una cosa che conosco e so che può logorarti se non sei Miriam Mafai, se non hai cioè la forza la fermezza la determinazione e il talento di Miriam Mafai. Ma è, anche questa, una lezione. —