La Stampa, 20 aprile 2023
Perché rafforzare l’Unione europea sarà cruciale per gestire le crisi future
Pur nell’ampia letteratura disponibile in materia, il libro è un contributo originale e importante. Anche grazie al ruolo da lui ricoperto negli ultimi 15 anni, Buti riesce a fare emergere come la riflessione sul ruolo dell’Unione europea e sulla sua capacità di risposta alle emergenze sia maturata all’interno delle stesse istituzioni progressivamente, quasi in tempo reale, via via che gli eventi costringevano a nuove elaborazioni (...).
Può essere utile interrogarsi sul perché nel giro di pochi anni si sia passati da un sostanziale fallimento, quale quello registrato durante la crisi dei debiti sovrani, al successo della risposta alla crisi pandemica. In primo luogo, l’emergenza sanitaria ha reso evidente la necessità di evitare tentennamenti e opacità. La risposta è stata rapida e imponente così da consentire a ciascun paese beneficiario di guidare le aspettative verso la ripresa, evitando dramma e incertezza. In secondo luogo è stata diversa la natura dello shock. La crisi dei debiti sovrani è stata una crisi “endogena” che traeva linfa da debolezze strutturali di alcuni stati membri; le risposte sono state quindi condizionate da preoccupazioni per la possibilità che alcuni adottassero strategie opportunistiche. La crisi pandemica ha prodotto un più classico shock “esogeno” la risposta al quale è stata chiara fin da subito.
Come osserva con forza Marco Buti, le innovazioni sperimentate in occasione della pandemia rappresentano un precedente importante che può guidare l’Unione europea verso un deciso rafforzamento della propria architettura e, quindi, della propria capacità di fronteggiare le emergenze. Le riforme strutturali vanno presentate mettendone in luce tutti gli aspetti positivi, ancorché distribuiti nel tempo, così da invertire la tendenza che ha portato nei passati decenni ad accorciare l’orizzonte temporale della politica economica. Occorrono per l’Unione non solo strumenti validi per attuare una vera politica di bilancio coordinata e comune in chiave anti-ciclica, ma anche istituzioni capaci di affrontare le grandi sfide che abbiamo davanti. A questo proposito Buti efficacemente richiama il “dilemma di Dahrendorf” relativo ai rischi di cedimento nei pilastri alla base del modello europeo di sviluppo: il perseguimento di una crescita economica soddisfacente, il mantenimento di una coesione sociale condivisa, la garanzia per tutti i cittadini di partecipare senza coercizioni al processo politico.
Solo con il rafforzamento dell’Unione sarà quindi possibile rispondere efficacemente alle disuguaglianze connesse con i grandi cambiamenti di questi anni (...). L’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria beneficerebbe senz’altro di un bilancio comune di dimensioni adeguate. A fronte di risorse proprie e della capacità di emettere debito si aprirebbero spazi decisivi per interventi di stabilizzazione economica e per l’offerta di beni pubblici “europei”, nella sicurezza come nella previdenza, nella sostenibilità ambientale come nella conoscenza; ne beneficerebbe altresì il coordinamento con la politica monetaria unica. Non si possono tuttavia sottacere le difficoltà presenti lungo questo percorso. La definizione di un bilancio comune e la nomina di un Ministro europeo dell’economia e delle finanze richiedono di porre mano a modifiche dei Trattati europei, un processo evidentemente dai tempi lunghi e dagli esiti incerti. È questa la ragione fondamentale per cui le gravi mancanze dell’architettura di governance non sono state ancora colmate e ancora si continua a essere lontani dal “parlare con una sola voce” sui temi economici come dimostrano, tra l’altro, le recenti difficoltà a trovare una posizione comune per contrastare i rincari dei prodotti energetici. Nel ragionare sul futuro bisogna tenere conto di almeno due aspetti.
In primo luogo va preso atto, come osserva anche Buti, che lo schema originario secondo cui la stabilità finanziaria sarebbe dovuta arrivare da Bruxelles e la crescita economica sarebbe stata perseguita dagli Stati membri non ha trovato finora conferma, meno che mai negli ultimi quindici anni. Oggi le politiche di stabilizzazione finanziaria sono spesso imposte ai singoli paesi da pressioni di mercato non adeguatamente governate, anzi spesso causate proprio dall’assenza di adeguate risposte unitarie. In queste circostanze fare dell’Unione il futuro motore della crescita è l’unico modo per riequilibrare la politica economica complessiva e scongiurare tendenze depressive.
In secondo luogo, finché l’Ue resta distante dal divenire una vera e propria “federazione politica” (una nazione formata da Stati non sovrani, come per esempio gli Usa), non può esservi un vero federalismo fiscale. Occorre, nel frattempo, puntare su soluzioni pragmatiche, percorribili a Trattati invariati, meno ambiziose eppure efficaci. Dotare l’Unione di una capacità di bilancio comune consentirebbe di disporre di uno strumento pronto per esser utilizzato in caso di necessità, senza dovere di volta in volta ricorrere a programmi ad hoc, con esiti incerti (...).
L’istituzione del programma NGEU, che ha solo in parte le caratteristiche di una capacità di bilancio comune, conferma che vi è consapevolezza del fatto che shock comuni richiedono l’utilizzo di uno strumento europeo in grado di affiancare la politica monetaria unica. Una risposta congiunta può però essere necessaria anche nel caso di shock asimmetrici, per rafforzare le politiche nazionali laddove i margini di manovra siano ridotti o per integrarle se l’azione dei singoli Paesi si mostri debole. Una stabile emissione di debito comune europeo, garantita da fonti di entrata autonome, potrebbe inoltre accompagnare il funzionamento della capacità di bilancio comune. Questo fornirebbe ai mercati uno strumento finanziario con elevato merito di credito, facilitando la diversificazione dei portafogli degli intermediari e l’integrazione dei mercati dei capitali, accrescendo l’efficacia della politica monetaria, e consentendo all’euro, come sottolineato da Buti, di assumere pienamente il ruolo di valuta internazionale.
In ogni caso, occorre andare oltre i “valori di Maastricht”, le “regole” del Patto di stabilità e crescita e l’affidamento sul solo operare di “stabilizzatori automatici”. A tal fine è indispensabile consolidare il processo di ricostituzione della fiducia tra i paesi europei. Da questo punto di vista il successo del programma NGEU costituisce una condizione necessaria, pur se non sufficiente. È quindi indubbia la responsabilità del nostro Paese, che di questo programma è tra i principali beneficiari (...).
Ma il completamento dell’architettura istituzionale europea potrebbe non essere sufficiente. Le molteplici crisi che si sono abbattute sull’economia europea hanno lasciato una pesante eredità in termini di debito pubblico che può essere esso stesso causa di nuove crisi, esattamente come accadde nel 2011. La gestione comune di una parte delle passività emesse in passato da ciascun Paese, ad esempio attraverso un fondo di ammortamento, consentirebbe anche di conferire rapidamente al mercato dei titoli del debito comune europeo lo spessore e la liquidità che evidentemente non potrebbe avere all’inizio. Proposte di questo genere sono state criticate per il timore che ne possano conseguire trasferimenti sistematici di risorse a favore dei paesi con debito più alto. Questi timori possono essere fugati con la definizione esplicita di meccanismi volti a impedirli che assicurino che ciascun Paese contribuisca al servizio del debito in proporzione a quanto conferito. La gestione comune di parte dei debiti nazionali non equivarrebbe a una loro cancellazione, bensì a una riduzione della frammentazione e della volatilità che oggi contraddistinguono nell’Unione europea il mercato dei debiti sovrani.
Per concludere, gli spunti e le riflessioni suscitate dai capitoli di questo libro vanno certamente oltre quanto illustrato fin qui. Potremo, con Marco Buti, chiederci quanto siamo lontani dall’Europa immaginata da Monnet, Schumann o Spinelli, e se il succedersi di crisi da affrontare abbia contribuito a rendere la costruzione europea più forte e aperta al futuro. La lezione di questi ultimi anni mostra però come non basti “tenere la propria casa”, quella degli Stati nazionali, in ordine. Problemi quali la sicurezza e l’energia, l’immigrazione e il clima non possono essere affrontati chiusi nei nostri confini nazionali. Altri, come l’adeguamento al cambiamento tecnologico e all’apertura dei mercati, le tendenze della demografia e gli investimenti in conoscenza non possono che beneficiare dell’integrazione economica e sociale dell’Europa, un’Europa che sempre più vogliamo che sia, ricordando l’Illuminismo di Gaetano Filangieri, «sede della tranquillità e della ragione».