La Stampa, 20 aprile 2023
Intervista a Giampaolo Galli. Parla di denatalità
Gli incentivi fiscali alla natalità allo studio del governo rischiano di rivelarsi nella migliore delle ipotesi molto onerosi per le casse pubbliche, nella peggiore anche inutili. «L’idea di risolvere il problema del debito pubblico con una misura del genere è quantomeno dubbia», osserva Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani. «Oltre ad avere un ritorno di lungo periodo, l’investimento sulla natalità è rischioso e ha un rendimento incerto», prosegue. «Piuttosto, bisogna investire sul welfare per consentire alle donne e alle famiglie in generale di assumere libere scelte riguardo ai figli».
Professore, quali sono le ragioni della sua perplessità?
«Suggerirei al governo di consultare i numerosi studi effettuati riguardo alla relazione fra numero di figli e reddito disponibile. Come Osservatorio dei Conti pubblici, abbiamo di recente realizzato un’analisi in proposito utilizzando i dati della Banca d’Italia: in Italia, a parità di età e istruzione, non abbiamo trovato alcuna correlazione fra il reddito e la fertilità. In altri termini, la disponibilità economica non sembra avere effetto sul numero di figli per famiglia».
Come mai?
«La demografia tende in generale a farci notare che al crescere del benessere delle Nazioni la natalità tipicamente diminuisce. E viceversa. Lo dimostrano da un lato la crescita della popolazione nei Paesi più poveri dell’Africa e dall’altro il calo demografico in atto in diversi Stati europei».
La parabola demografica in Italia è però in discesa più ripida rispetto alla Germania o alla Scandinavia. Sicuri che non sia un problema di reddito?
«Nei Paesi del Nord la natalità è superiore perché hanno un welfare migliore. La letteratura è unanime nel ritenere che nei Paesi ricchi il numero di figli dipende dal numero di strumenti di sostegno, pubblici o privati, che consentono di conciliare la vita lavorativa dei genitori con quella familiare».
Quindi?
«Servono asili, scuole elementari a tempo pieno e strutture pubbliche che accolgano i bambini durante le lunghe vacanze estive. Sarebbe un investimento certamente meno oneroso».
Perché?
«Premesso che bisognerà attendere la proposta completa, il titolo “niente tasse per chi fa figli” o “modello 110%” fa pensare a costi molto elevati. Le stime circolate di un miliardo mi sembrano irrealistiche, a meno di voler circoscrivere l’abbattimento delle imposte ai ceti meno abbienti, per i quali il reddito può diventare davvero un ostacolo alla decisione di mettere al mondo più figli. Simile limitazione risponderebbe peraltro a principi di equità fiscale».
Si riuscirebbe così incidere sulla sostenibilità del debito?
«Riducendo la platea dei beneficiari, l’effetto sarebbe sicuramente minimo. In ogni caso, anche qualora l’incentivo fiscale sia applicato a tutti e funzioni, l’investimento sulla natalità darebbe frutti nel lungo termine. Funzionerebbe fra 20,30 o 40 anni quando i figli di oggi saranno in età lavorativa. Il problema del nostro debito pubblico è invece urgente e pressante».
L’immigrazione avrebbe invece benefici nel breve termine sui conti pubblici?
«La risposta generale è sì, ma è anche generica: l’ammontare del beneficio dipende dalle competenze delle persone che arrivano in Italia. Se con i decreti flussi si riuscisse non solo ad aumentare l’immigrazione ma anche in qualche modo a orientarla, l’effetto sulla produttività e sulla sostenibilità del debito sarebbe immediato». —