la Repubblica, 20 aprile 2023
Salviamo Broadway
«Una mela al giorno leva il medico di torno. Basta avere una buona mira». Pochi giorni fa scambiavo citazioni di P. G. Wodehouse con il mio figlio più grande, Nick, in un reparto per malati terminali di cancro dov’era ricoverato. «Senti questa», mi ha detto Nick ridendo. Immaginava, viste le notizie da New York, che suo padre, come avrebbe detto Wodehouse, doveva non essere non malcontento. «Qualcuno ha mai visto un critico di teatro alla luce del giorno? Ovviamente no. Escono al calar del sole per compiere le loro malefatte». Ci siamo abbracciati e ci siamo salutati.
Il giorno dopo, Nick è morto. Per un genitore non esiste nulla di peggio della morte di un figlio. Nel profondo del mio animo, mi sembra sbagliato scrivere della chiusura diThe phantom of the Opera o del futuro di Broadway in questo momento. Ma ci proverò comunque. Devo tutto al mio amore per Broadway e al suo straordinario patrimonio di musical, e tutto ciò che scrivo viene dal sogno di quel bambino che voleva arrivare alla great white way, la grande strada bianca.
Tutte le strade portano al mio compianto amico e collaboratore Hal Prince. Il mio legame con Hal cominciò nel 1970, quando mi inviò un telegramma per proporsi come regista e produttore di Jesus Christ Superstar a Broadway. Il telegramma mi arrivò solo dopo che lo show era già stato assegnato. Hal sapeva che mi era dispiaciuto non poter lavorare con lui e rimanemmo in contatto.
Saltiamo al 1985, quando ci incontrammo al ricevimento per i candidati ai Tony Award, al Plaza. Il personale era in sciopero e non c’era nessuna possibilità che il musical per cui Hal era stato candidato potesse vincere, per cui ce ne andammo da un’altra parte. La conversazione, a quanto mi ricordo, andò più o meno così.
Io: Hal, tu dirigeresti mai una grande storia d’amore?
Hal: Perché, ragazzino, ce n’è una a cui stai pensando?
Io: Sì, da quando ho visto South Pacific. Gesù, i gatti e la moglie di un dittatore argentino non hanno colpito nel segno.
Hal: Vale anche per me. Vai avanti… Gi spiegai che avevo appena letto un libro dal titolo Il fantasma dell’opera.
Perché pensavo che dentro a un romanzo che non si capiva se fosse un giallo o un horror, Svengali o Trilby, ci fosse il soggetto perfetto? Gli dissi che volevo che il teatro assomigliasse a un teatro dell’opera in disuso, con il maestoso lampadario in vetro che risorgeva dal palcoscenico riportando l’edificio alla sua gloria passata. Hal disse: «Vai a scriverela musica».
E ora saltiamo allo scorso weekend. Dopo 35 anni di rappresentazioni ininterrotte, The Phantom of the Opera ha chiuso i battenti a Broadway. È un dolore personale vedere la chiusura di questa magnifica creazione, l’ultima produzione di Hal Prince a Broadway. Il paradosso è che l’ultima stagione è stata quella con i maggiori incassi di sempre. Forse risorgerà di nuovo.
È la fine di un’era per Broadway? No. Innanzitutto perché l’era dei grandi musical originali di Broadway è finita molto tempo fa. Successi strepitosi come Hamilton e The Phantom of the Opera non sono natia Broadway, a differenza di West Side Story eFiddler on the roof.
Oggi produrre un’opera in un piccolo teatro di Broadway può costare 5 milioni di dollari, e sono poche le pièces in grado di coprire costi del genere, anche con prezzi dei biglietti astronomici. Perfino un musical di media entità può costare 18 milioni di dollari. I costi operativi diThe phantom of the Opera prima della pandemia erano di circa 850.000 dollari la settimana; con i nuovi obblighi imposti dalla pandemia la cifra è salita quasi a 1 milione. Non c’è da stupirsi che oggi i musical abbiano cast ristretti e scenografie ridotte al minimo. Non c’è da stupirsi che i produttori puntino sui musical da jukebox, con cataloghi di canzoni che tutti conoscono. Non c’è da stupirsi che i giovani creatori scrivano per qualsiasi altro posto che non sia Broadway per guadagnarsi da vivere.
Non ho soluzioni per i problemi che assillano tutte le produzioni di musical a Broadway. Ma so che tutti noi che crediamo in Broadway dobbiamo metterci sotto, se ci interessa il futuro di questa forma d’arte. Innanzitutto, i biglietti costano. La media oggi è intorno ai 130 dollari, una cifra inaccessibile per troppe persone. E bisogna aggiungerci i diritti di prevendita delle biglietterie digitali con cui i proprietari dei teatri firmano accordi. Andare a teatro deve diventare più piacevole. Non è accettabile, nel 2023, vedere spettatori, durante l’intervallo, che cercano disperatamente una toilette nel bar di fronte sotto la pioggia che cade a dirotto. Anche i sindacati del settore devono dare una mano. La salute e la prosperità di Broadway sono di enorme importanza per i loro iscritti. I tanti contratti collettivi fanno salire i costi a un livello insostenibile. Ma c’è, ahimè, uno scenario fin troppo verosimile. Broadway, a differenza del West End londinese, è un marchio di fama mondiale, inestricabilmente legato a New York. Questo significa che se vuoi farti un nome, avere uno spettacolo in cartellone a Broadway è come affittare uno spazio commerciale sulla Quinta Avenue (o a Oxford Street a Londra): ci perdi soldi, ma è una cosa che non puoi non avere se il tuo obiettivo è lanciare il tuo marchio a livello mondiale.
Per favore, no.
Questa è stata una stagione di addii, pubblici e personali. Ora che a New York è calato il sipario sul musical che è stato il più importante della mia carriera, prego con tutte le mie forze che Broadway riscopra la voglia di nuove canzoni e di opere originali che mi entusiasmava così tanto quando ero, come mi chiamava sempre Hal, un ragazzino.
Traduzione di Fabio Galimberti © 2023, The New York Times