Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 20 Giovedì calendario

L’identità secondo Calvino

Dell’identità si parla molto oggi come d’un valore che deve essere continuamente affermato, garantito contro la minaccia di perderlo, sia in senso individuale che in senso di gruppo: identità personale o identità nazionale etnica linguistica ecc. Cominciamo a stabilire bene il significato di questa parola. Per prima cosa la mia identità è fondata su qualcosa che non cambia nella mia vita. Certo potrei anche essere un vagabondo che vive ogni giorno in un paese diverso, incontra persone diverse, linguaggi diversi, potrei venir chiamato ogni giorno con un nome diverso, adattarmi ogni giorno a un mestiere diverso per guadagnarmi cibi sempre diversi. Potrei dire d’avere ancora un’identità? Certamente sì, perché resterebbero i miei ricordi, la continuità del mio passato. Se però fossi affetto da amnesia e non ricordassi niente da un giorno all’altro? Ebbene resterebbero sul mio corpo delle cicatrici, lividi di bastonate, morsi di cani, carie dentarie, tic nervosi, allergie, che mi persuaderebbero d’esser sempre io, purché da una volta all’altra non mi dimentichi d’averli. Certo se io non mi ricordo d’essere io e quelli che s’incontrano sono sempre degli altri, che mi vedono una volta sola e mai più, allora la mia identità si perde. Diciamo dunque che le condizioni necessarie dell’identità sono due: prima, che io sia in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda, che gli altri siano in grado di capire da una volta all’altra che io sono sempre io. Perché c’è anche la possibilità che io da un giorno all’altro cambi talmente, sia un giorno grasso un giorno magro, oggi tranquillo domani agitato, oggi balbuziente domani di fluente loquela, da risultare agli altri irriconoscibile, e in questo caso la mia identità è difficile sostenere che esista. Poi c’è ancora una condizione, ed è che io sia uno, e non resti sempre il dubbio che invece di me si tratti del mio gemello omozigote indistinguibile da me, che una sera ritorno a casa io e una sera ritorna lui e mia moglie non sa mai quale dei due è in casa. Oppure che io non sia certe sere il rispettabile Dr. Jekyll e certe altre l’abominevole Mr. Hyde, nel qual caso avrei due identità invece di una. Oppure se avessi un mio fratello siamese indissolubilmente saldato al mio fianco per cui non potessimo far niente separati, allora l’identità non riguarderebbe più me bensì noi.
A pensarci bene, nei lunghi anni di guerre pestilenze cataclismi che ho vissuto, ho visto tante cose cambiare, molte volte ho dovuto cambiare le mie abitudini, le mie opinioni, i miei gusti, il mio vocabolario: sarò veramente sempre la stessa persona? La carta d’identità dovrebbe provarlo, ma adesso che sono diventato calvo, che mi sono fatto crescere una folta barba bianca, adesso che porto gli occhiali, la dentiera e il cornetto acustico, la carta d’identità non è più valida. Poi, come è noto io non sono soltanto io ma insieme all’io devo considerare la presenza d’un super-io e d’un inconscio che vanno per conto loro: adesso per esempio questa pagina non si sa fino a che punto la sto scrivendo io e fino a che punto non è il mio super-io o il mio inconscio a scriverla, e l’inconscio poi può anche essere non mio ma un inconscio collettivo bello e buono. (...)
Queste cose che sto scrivendo sono in gran parte il prodotto d’una cultura non mia individuale che mette in circolazione le idee di cui io mi servo, perché è chiaro che ciò che sto esprimendo è già stato elaborato masticato digerito dalla nostra epoca nel suo complesso. Credo d’usare uno stile tanto personale, invece è un linguaggio elaborato da tutti quelli che parlano e scrivono in italiano e le possibilità di scelta che mi si offrono all’interno di questo sistema linguistico sono limitate e anche quelle sottoposte a vari condizionamenti che vanno al di là della mia identità individuale. Per esempio sono io che scrivo, d’accordo, ma c’è anche la classe borghese cui appartengo anima e corpo che s’esprime attraverso di me proprio quando io più me ne dimentico o più m’illudo d’essere qualcosa di diverso da un borghese, per esempio un feudatario junker o un monaco trappista.
A scrivere sono io, certo, ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un bianco eurocentrico consumista petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di cultura, con o senza scrittura, con ordinamento tribale o di clan, praticante culto vegetale o animale o degli antenati patrilineari o matrilineari, allora quello che scrivo dell’identità sarebbe completamente differente (...).
Insomma l’identità più affermata e sicura di sé, non è altro che una specie di sacco o di tubo in cui vorticano materiali eterogenei cui si può attribuire un’identità separata e a loro volta questi frammenti d’identità sono parte d’identità d’ordine superiore via via sempre più vaste. E se questo è vero per gli individui figuriamoci per le identità di gruppo. Detto questo non voglio naturalmente scoraggiare nessuno. Lo strumento più raffinato per definire l’identità mi sembra il sistema dei Samo, popolazione africana dell’Alto Volta, che nella persona umana distinguono nove componenti: 1) il corpo, che si riceve dalla madre, 2) il sangue, che si riceve dal padre, 3) l’ ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particella della vita, che è un’entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie(si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto, e finalmente s’incarnerà in un albero), 9) il destino individuale. A questi nove elementi s’aggiungono quattro attributi: il nome, l’omonimo soprannaturale, il segno dell’eredità che indica che una componente d’un antenato s’è incarnata nel neonato, e la presenza d’una coppia di geni, della brousse o domestici, ostili o benefici. Così gli elementi in gioco diventano tredici e anche quattordici, e collegano l’individuo all’universo (dio trascendente e geni della brousse) e all’umanità (antenati e genitori).
L’identità è dunque un fascio di linee divergenti che trovano nell’individuo il punto d’intersezione. Il vero supporto dell’identità è dato dal nome (nome di lignaggio e nome individuale) definendo il posto e il ruolo sociale che l’individuo ha in ragione della sua situazione genealogica: è il nome a indicare se un dato individuo dipende dalle potenze della terra o da quelle della pioggia, se farà il fabbro o il becchino, se è uomo o donna, primogenito o cadetto. Mi pare che il modello dei Samo s’avvicini più di qualunque altro a quello che potrebbe servirci, qui e ora nella nostra civiltà d’oggi. E non penso soltanto all’identità individuale ma anche all’identità di gruppo, definita sia nello spazio (permanenza in un dato territorio) sia nel tempo (genealogia o continuità storica) sia nell’omogeneità linguistico- culturale (...).
Così come l’identità dell’individuo è definita soprattutto dal nome che gli viene attribuito cioè dal suo posto nella società intorno a lui e nella catena genealogica e storica prima di lui e dopo di lui, così l’identità di gruppo è definita dal rapporto in cui si situa rispetto a chi non s’identifica col gruppo, cioè il resto dell’umanità, il mondo esterno in cui la presenza del gruppo fa breccia, il campo d’influenze e d’onde che partono e arrivano. È il fuori che definisce il dentro, nell’orizzontalità dello spazio così come nella dimensione verticale del tempo: rispetto al passato, di prima che l’identità del gruppo si staccasse dal pulviscolo del fondo; e rispetto al futuro, al crepuscolo o metamorfosi o esplosione di supernova che prima o poi attende popoli e civiltà e linguaggi e sapienze nel melting-pot universale.
Il testo, pubblicato su «Civiltà delle macchine», settembre- dicembre 1977, è tratto da Saggi, 1945-1985, a c. di M. Barenghi, Tomo secondo © 2002 by Eredi Calvino e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano © 2015 by Eredi Calvino e Mondadori Libri S.p.A., Milano