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 2023  aprile 20 Giovedì calendario

Con la Guardia costiera al largo della Tunisia “Salviamo molte vite ma l’Italia non ci aiuta”

A BORDO DI UNA MOTOVEDETTA TUNISINA – Sulla terra, c’è la Sfax di sempre: un po’ Blade Runner, quando il buio cala giù all’improvviso. I migranti clandestini vagano senza meta, sagome ritagliate dalle luci opache dei lampioni. Sull’acqua, invece, come ogni sera, si apre un mondo, sospeso fra speranze e miraggi. In quel braccio di mare tra la seconda città della Tunisia e le isole Kerkennah, il corridoio iniziale dei 180 chilometri che mancano per Lampedusa, brillano le luci delle navi da carico, che fanno la fila per entrare in porto, e dei pescherecci veri. Quelli falsi (pieni di clandestini) e i barchini metallici e pericolosissimi, nuova moda dell’emigrazione low cost dei subsahariani, scivolano via silenziosi, avvolti nelle tenebre. In questa notte di stelle, ma senza luna, con un buio pesto, sul Mediterraneo tenacemente immobile.
«Sono le condizioni migliori perché i migranti decidano di partire», osserva Mohamed Borhen Chamtouri, comandante di un battello della Garde Nationale, che svolge le funzioni di guardia costiera. È lungo 35 metri, come tutte le sei unità donate dall’Italia nel 2014 (diciamolo, oggi ridotte assai male). Una soltanto è a Sfax, da dove parte il grosso dei migranti. Mohamed è lo specialista numero uno di come scovare, grazie al radar a bordo, le barche dei clandestini nascoste in quel tripudio di lucine sull’acqua nera. Invia a ruota alcuni mezzi più veloci (ci sono due zodiac e due pilotine) a fermarle. Non mancano le polemiche sui metodi bruschi di certe pattuglie della Garde Nationale, ma lui dice: «Salviamo anche tante vitedai naufragi».
Ecco, sono le 22 e si parte. Mohamed spinge la sua imbarcazione fino a una sessantina di chilometri da Sfax. In questa regione, nel primo trimestre del 2023, 13mila persone sono state intercettate in mare, cinque volte di più dello stesso periodo dell’anno scorso: tanto per dire come sia aumentato il flusso. Un puntino sul radar va e viene: una barca troppo piccola, che non può essere un peschereccio, tanto meno una piena di container. Il comandante dà l’ordine a due zodiac di portarsi sul posto. Saltano veloci su quella distesa liscia. Il barchino viene individuato: a bordo spingono il motore, cercano di fuggire. Ma alla fine quello quasi fonde, poi si blocca.
I passeggeri sono trasferiti nell’imbarcazione di 35 metri. Abubakar ha 17 anni, ma ne dimostra talmente di più. Viene dal Senegal ed è arrivato a Tunisi un anno e sei mesi fa. Ma dopo le parole del presidente Kais Saied, che si è scatenato contro le «orde di migranti subsahariani clandestini» del Paese, Abubakar ha perso il suo lavoro (precario e sottopagato). «Vorrei vivere in Italia e fare l’idraulico – dice – e anche tentare la carriera di calciatore». È la quarta volta che ci prova, «ma lo rifarò». Ora ha appena pagato mille dinari, neanche 300 euro, che sono un terzo di quanto veniva chiesto come minimo un anno fa. I barchini, così poco cari da costruire, hanno buttato giù i prezzi. Accanto a Mohamed, cisono dei curdi siriani, arrivati due mesi fa. «Siamo partiti nel 2017 – racconta Majd –. Siamo passati in Libano, da lì in aereo in Libia, poi in Algeria e alla fine in Tunisia. Ci siamo arrangiati, abbiamo lavorato». Majd ha 23 anni. «Sogniamo l’Europa della democrazia, il rispetto dei nostridiritti. Io sono cuoco e anche un bravo artigiano della ceramica; mi piace lavorare». Ma la Garde Nationale lo ha fermato. Lui, disperato, ha solo il fiato per dire: «Mi vorrei uccidere». Mohamed, intanto, scruta ancora i puntini del radar: ha un altro sospetto e le pilotine corrono all’impazzata. In questo barchino sono tutti subsahariani, perlopiù donne con bambini. Agli uomini nelle tute mimetiche, che sbucano fuori dal buio, urlano, in tunisino: “Alesh?”. Perché? Perché ci fate questo. Oppure la parola “Ramadan”, perché siamo in pieno digiuno islamico: implorano clemenza. Ma non c’è niente da fare. Raggiungono gli altri, sul ponte, sopra Mohamed. Tra di loro, Madeleine, 33 anni, stringe Princesse, la sua piccoletta, fra le braccia. Originaria della Costa d’Avorio, faceva la saldatrice in un’impresa di Sfax. «E ci stavo bene, non volevo emigrare. Ma dopo le parole di Saied abbiamo perso il lavoro e nessuno ha più voluto affittarci un appartamento». Con lei c’è il marito. I due non sanno nuotare, ma «stanotte non avevo paura. – ricorda Madeleine – Chi va a scoprire qualcosa di diverso, prova sempre una gioia profonda». Ritenterà, dice, eccome se lo rifarà.
Sorge il sole e scalda quest’umanità stanca e scoraggiata. Stavolta tocca a un gruppo di tunisini, rincorso dagli zodiac. Viaggiano su un barcone di legno (meno pericoloso, ma hanno pagato di più). Sono soprattutto ragazzi, alcuni coi Rayban falsi. Fatima, invece, ha 40 anni e il figlio 12. Viene da Sfax. «Ho una laurea di professoressa d’inglese, ma non ho mai potuto esercitare: troppi laureati e diplomati nella Tunisia in crisi... Ho fatto la parrucchiera precaria. Vivo ancora con i miei genitori e non ne posso pi». «My dream is London», lo dice in inglese. «Ho provato tre volte, ma lo rifarò». Quella precedente, con il figlio, erano rimasti tre giorni in mare: abbandonati, senz’acqua, né cibo.
Nell’imbarcazione di Mohamed ormai ci sono 243 migranti. Non sanno più dove metterli. Procede a rilento verso il porto di Sfax, dove, ad aspettarlo, c’è il suo superiore, il colonnello Younes Saber. Che va subito al sodo. «I mezzi a disposizione sono insufficienti – osserva – e il nostro Paese, in gravi difficoltà finanziarie, dipende dalla cooperazione internazionale». «Nelle imbarcazioni di 35 metri, donate dall’Italia, ci sono guasti a ripetizione – aggiunge –. Una è inutilizzabile da sette mesi. Siamo vittime delle lentezze burocratiche, anche da parte del vostro Paese: il mezzo deve essere riparato nei cantieri navali di Adria, ma non ne abbiamo più saputo nulla». E poi «non funziona la collaborazione operativa con gli italiani, quella con la Guardia costiera e la Guardia di finanza. Ad esempio, ci sono zone Sar (Search and rescue), di soccorso marittimo, divise tra i due Paesi. Quando noi inseguiamo un barcone nella nostra Sar, se passa in quella italiana, non possiamo entrarvi e neanche avvertire le vostre autorità, perché non esiste collaborazione, che in realtà salverebbe tante vite umane». Ora i migranti stanno scendendo a terra. Ai tunisini sono richieste le generalità e poi se ne vanno. Per i subsahariani nessun controllo: liberi tutti, immediatamente. Si avviano verso la città, già polverosa e palpitante. Ma a Sfax non esiste un centro d’accoglienza per i migranti. Cercheranno lavoretti per pagarsi il prossimo passaggio, a prezzi sempre più stracciati. La buona stagione sta iniziando e il mare sarà ancora più piatto. In quelle notti scure e senza speranza, si continuerà a morire.