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 2023  aprile 20 Giovedì calendario

Intervista a Marina Cicogna

Nella vita è una contessa, al cinema è una regina. Marina Cicogna è l’aristocratica ribelle chic contro la morale diffusa. I suoi amici? Gianni Agnelli, Jeanne Moreau, Gregory Peck, Jackie Kennedy, Mick Jagger... Come insegnante ha avuto Marguerite Yourcenar. Marina ha 88 anni, e non ha mai cercato di nascondersi o di esibire. «Non avevo convinzioni precise sulle scelte sessuali, ho sempre creduto nell’incontro tra le persone».
Suo nonno ha fondato il Festival di Venezia, lei lo racconta così: «Nel 1932 questo signore vede che gli attori americani vanno in vacanza a Venezia e per aiutare i suoi alberghi tira su un lenzuolo per proiettare film». Fu la prima produttrice nel mondo a vincere l’Oscar con Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Il 10 maggio riceverà il David di Donatello alla carriera. Ha una malattia, «quella» malattia di cui parla nella bella autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo del Corriere Veneto), intitolata Ancora spero (Marsilio).
Perché questo titolo?
«Era il motto di casa Cicogna dal ’400, è sempre complicato sceglierne uno, e questo non è pomposo. Il libro è una storia tagliata in due. Fino a 84 anni avevo una vita regolare, sciavo ancora abbastanza bene, da un giorno all’altro quasi non mi potevo più muovere. La malattia è noiosa, agisce sulla psiche e cambia i valori dele cose, di quello che avevi voglia di fare non ti frega più niente».
Cosa rappresenta il David?
«Mi fa molto piacere. È successa una cosa inattesa e bizzarra, da qualche anno si ricordano di me. Incontrai Giorgio Napolitano quando era Presidente e mi disse, lei ha fatto tanto per il cinema. Sì ma non ho mai avuto nessun riconoscimento, risposi. Tre giorni dopo mi chiamò il Quirinale, lei ha avuto un Cavalierato al merito. Dopo poco mi richiamarono, ci siamo sbagliati, è Grand’ufficiale della Repubblica».
Che cinema ha sostenuto?
«Mai quello molto popolare, e nemmeno i grandi registi. Fellini e Visconti, con cui ero imparentata alla lontana, mettevano in ginocchio i produttori. I miei erano film di artisti che erano anche scrittori, come Patroni Griffi. In buona parte rispecchiavano la mia libertà. In Helga per la prima volta si vedeva un parto. Avrei potuto fare di più, ho lavorato nel decennio dei ’70, poi tornai dagli Usa e in Italia andavano solo filmetti comici. Ci fu la tragedia del suicidio di mio fratello Bino, e per i debiti lasciati mia madre dovette vendere tutto. Il mondo del cinema c’è stato contro».
Era dura per una donna?
«Sì, ti facevano le scarpe lisciandoti il pelo. C’ero solo io e dopo, come distributrice, Vania Traxler. L’ambiente era maschilista. Non riuscii a produrre Il conformista neanche spaccandomi la testa, e lo stesso per Il portiere di notte di Liliana Cavani, che è molto riservata e sono contenta che a Venezia le daranno il Leone alla carriera».
Capitolo oscar
«Mio padre, che era un ingegnere estraneo al cinema, prese l’Oscar per aver prodotto Ladri di biciclette e io per Indagine diretto da Elio Petri, con Volonté che divenne stranamente mio amico. Un commissario omicida. L’anno prima c’era stata la strage di piazza Fontana. Avrai tutti addosso, mi dissero. Zeffirelli mi accusò di aver prodotto un film comunista. A Cannes mi diedero il premio della giuria, non la Palma d’oro. Così non andai agli Oscar, convinta che non l’avrei preso. Invece...».
Com’erano i grandi che ha conosciuto?
«Marilyn Monroe era attratta da chiunque fosse italiano, di lì a poco sposò Joe Di Maggio, comunicava insicurezza per la ricerca del suo personaggio, sul set faceva impazzire i registi, dove devo mettere il dito, e la gamba? Marlon Brando se ne stava in disparte, silenzioso, misterioso. Greta Garbo, con cui sono stata in crociera in Costa Azzurra con Onassis, era simpatica, divertente, tutto l’opposto della serietà di cui si diceva. Accanto a una spiaggia di nudisti mi disse: quel signore mi sembra nudo, ma è tanti anni che non vedo un uomo nudo, forse mi sbaglio. Ma non faremo l’elenco, vero?».
Ha avuto un flirt con Alain Delon ed è stata per 20 anni con Florinda Bolkan.
«Alain a Megève lasciò sotto la porta di una stanza d’hotel che condividevo con Ljuba Rizzoli, bellissima, un biglietto: ti aspetto nella camera 104. Mancava il destinatario. Strappai il biglietto dalle mani di Ljuba e mi precipitai io. Ero la ragazzina invaghita di un mito, galleggiai sospesa in un’altra dimensione per qualche settimana. Florinda, la conobbi a Parigi a casa di Elsa Martinelli e Willy Rizzo. Lei era appena tornata da una vacanza a casa Kennedy. La trovavo molto speciale, solare, libera, disinibita, fisico asciutto, sorriso infantile, aspetto un po’ androgino. Era stata executive hostess della compagnia aerea Varig, accompagnava i passeggeri più famosi. Ci siamo conosciute poco a poco. Alle sue scappatelle dava poco peso, ma si rifiutava di accettare la mia con Benedetta, che dovette nascondersi in un armadio, tra i miei vestiti. Ci vivo da quasi 40 anni».
A Gianni Agnelli piaceva il cinema o solo Anita Ekberg?
«A casa sua proiettava ogni sera un film, ma è raro che lo vedesse fino alla fine. Si annoiava facilmente. Ebbi un flirt con Lex Barker, il Tarzan del cinema; Gianni entrò in camera con una torcia per vedere se era così bello: alzò il lenzuolo e disse, mi fate vedere questo Tarzan? In effetti non è così male, disse. Con Anita ebbe una relazione, direi relativamente importante».
Marina, la sua vita è il copione di un film.
«Il produttore di Via col vento, David O. Selznick, chiese a mia madre di potermi adottare. La mia gioventù è stata un periodo irripetibile».