Corriere della Sera, 20 aprile 2023
Intervista a Federico Pignatelli della Leonessa
A Manhattan ci separa solo mezz’ora di metrò, ma c’è voluto un set alla Agatha Christie – una crociera sul Nilo – perché lo incontrassi: un omonimo che è uno degli italiani illustri di New York. Un principe che discende da un papa. A lungo socio e «quasi amico» di Donald Trump. Nonché proprietario del più grande spazio mondiale dedicato alla pubblicità di moda, i Pier59 Studios di Chelsea. Espulso da casa sua e «relegato» in una suite a Casa Cipriani, club esclusivo con vista sulla Statua della Libertà. Federico Pignatelli della Leonessa, nato nel 1963 a Roma, discende da una casata con 1.100 anni di storia a Napoli e in Sicilia. «Le nostre connessioni con il Vaticano sono antiche – dice – e uno dei miei antenati nel 1691 divenne papa Innocenzo XII. In famiglia abbiamo avuto anche quattro cardinali. A Napoli Villa Pignatelli è un museo, a Roma porta il nostro nome via Appia Pignatelli. Nella capitale Palazzo Pignatelli è l’ala antica di Montecitorio. Quando torno a Roma però non mi lasciano alloggiare in Parlamento, mi tocca andare in albergo...».
Lui e il fratello sono gli ultimi discendenti maschi del ramo principale. Federico ha avuto una figlia, Lucrezia, da una breve relazione con una ex modella brasiliano-armena: «Lei era troppo giovane. Io non sono mai stato sposato. Poiché anche mio fratello ha solo una figlia, secondo mio padre tecnicamente la casata si estinguerà con noi. Non so se queste regole siano aggiornate al nuovo diritto di famiglia...». Il principe fin da bambino è stato attratto dal mondo dello spettacolo.
Sua madre Doris Mayer Pignatelli, originaria di Monaco di Baviera, amava il cinema e accettò di interpretare la parte di una nobildonna romana ne «La dolce vita» di un altro Federico.
«In famiglia fece scandalo – ricorda Pignatelli – si vede che Fellini era considerato un rivoluzionario. La nonna paterna tolse il saluto a mia madre per anni». Oggi la principessa Doris, che da ragazza era stata una campionessa di sci nautico, ha 96 anni e vive in un casale sopra Spoleto.
La carriera professionale di Federico inizia «da zero, senza nessun patrimonio familiare», con una breve esperienza da giornalista economico al Globo. Viene notato da un finanziere italo-svizzero che lo invita a lavorare per lui, tra Ginevra e Lugano. Sono gli anni Ottanta, c’è l’iper-inflazione, le banche centrali la combattono con tassi d’interesse a due cifre, Pignatelli si tuffa nel nuovo mondo dei financial futures. Inizia una vita a duecento all’ora tra incidenti d’auto, amori con donne sempre bellissime, traslochi veloci da un continente all’altro: vive a Sidney, a San Francisco («Quando era l’epicentro della tragedia dell’Aids»), a West Hollywood (Los Angeles), Londra, infine New York. È la Grande Mela degli anni Novanta, in pieno rilancio sotto il sindaco Rudolph Giuliani.
La passione per la fotografia lo porta a contatto con un ambiente in effervescenza, «ma non c’erano studios adeguati al volume di attività di New York, i grandi fotografi dovevano lavorare in vecchi loft o garage». Lo attrae Pier59, uno dei moli di Chelsea sul fiume Hudson. «Era la zona dove storicamente attraccavano i transatlantici dall’Italia, ma il quartiere non era la Chelsea glamour di oggi. Nel Meatpacking District lì a fianco arrivavano i camion carichi di animali destinati a diventare scatolette. Nell’aria c’era la puzza di carne macellata. Pier59 sembrava un grattacielo sdraiato sull’acqua. Vuoto, inutilizzato».
Comincia così l’investimento che diventerà l’attività principale di Pignatelli: ricostruisce il molo per un mondo che conosce bene, la pubblicità della moda. Lo inaugura nel dicembre 1995 con un grande party di Renzo Rosso per Diesel. «Tutta la New York che contava quella sera venne, Pier59 Studios era lanciato». Da allora i più grandi stilisti sono suoi clienti per servizi foto e video pubblicitari: Armani, Valentino, Versace, Dolce&Gabbana. «Oggi celebriamo un’altra rinascita di Pier59 Studios – dice Pignatelli – alla realtà virtuale e al meta-verso».
Un secondo battesimo e un nuovo mega-party, affollato di top model e altre celebrity, l’8 febbraio di quest’anno. La rivoluzione tecnologica lui la descrive così: «Offriamo lo schermo virtuale più grande del mondo, invece di far viaggiare una squadra di venti persone per girare un video pubblicitario nel deserto del Sahara o nella foresta amazzonica o su un ghiacciaio dell’Himalaya noi portiamo la location nello studio. In 2D o in 3D possiamo controllare la luce del sole, il clima, facciamo piovere o nevicare, è un esperimento immersivo che taglia i costi, migliora la qualità, offre effetti speciali senza precedenti».
Lui ne va fiero anche come di «un’eccellenza made in Italy in un settore dove ti aspetti che l’America sia superiore». Ha un po’ di nostalgia per la New York dove l’avventura ebbe inizio. «Negli anni Novanta questa città era spettacolare, sprigionava un’energia straordinaria, tutto era possibile, il fermento era unico, incontravi le persone più interessanti del mondo. Oggi ha perso quella dimensione esclusiva, è meno sofisticata, forse perché è cambiato il mondo. Mi manca».
Gli affari con Trump
Nella New York degli anni Novanta a lui capitò pure di diventare socio di Donald Trump. Insieme investirono in un ristorante-club, il Lotus, uno dei locali che lanciarono la vita notturna a Chelsea. Di Trump lo colpì una contraddizione: «Avventuroso, circondato di donne, amante della bella vita, però rigorosamente astemio. Io da buon italiano apprezzavo il vino, lui non si è mai lasciato tentare: solo acqua o peggio, Coca Cola. Anche dalla droga riusciva a tenersi lontano, in anni in cui scorreva a fiumi». The Donald però era «un temperamento focoso, s’imbestialì una sera in cui al Lotus non lo riconobbero e gli presentarono il conto».
La discesa in politica? «L’ho perfino incoraggiato, pensando che non sarebbe mai stato eletto. Poi me ne sono pentito perché quelli che conoscevano i nostri rapporti hanno cominciato a perseguitarmi, per chiedermi contatti con il presidente. Ho dovuto cancellare il mio nome dall’ingresso del mio appartamento a Soho».
Quell’appartamento è al centro di un altro aneddoto curioso: la causa contro uno dei più celebri finanzieri degli Stati Uniti, Ray Dalio, italo-americano. «Lui vale 20 miliardi e potrebbe comprarsi tutta Soho – osserva Pignatelli —, invece ha costruito una penthouse sopra il mio appartamento, poggiando sulle mie colonne portanti, e lo ha reso pericolante. Ho uno dei loft più belli di Soho e non ci posso entrare, è inabitabile. Per colpa di un cantiere illegale». La storia del principe italiano che trascina in tribunale il miliardario italo-americano per abusi edilizi, ha fatto la gioia dei tabloid newyorchesi.