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 2023  aprile 19 Mercoledì calendario

Biografia di Germano Celant

Fra le prime vittime del Covid in Italia vi fu, il 29 aprile 2020, Germano Celant, grande protagonista della scena artistica mondiale; e l’Accademia di San Luca lo ricorda ora nel terzo anniversario della morte. Di lui tutti conoscono l’eccezionale, tagliente intuito con cui nel 1967-68 seppe fulmineamente mettere insieme artisti disparati sotto un’avvedutissima etichetta di sua invenzione, “Arte povera”. Ma non si contano le mostre e le iniziative che lo videro al timone di istituzioni o gruppi di ricerca. Un suo libro postumo, The story of (my) exhibitions, pubblicato da Silvana Editoriale per cura dello Studio Celant (presieduto dalla moglie Paris Murray e dal figlio Argento), è un’ottima guida nel dedalo delle sue mostre “a tema”, dalla prima sull’Arte povera (Genova 1967) a Post Zang Tumb Tuum. Arte, vita e politica in Italia, 1918-1943, che si tenne a Milano, Fondazione Prada nel 2018. Ma non meno ampio e complesso è il panorama dei suoi libri (e mostre) d’impianto monografico, su artisti come Giulio Paolini (1972), Michelangelo Pistoletto (1984), Giuseppe Penone (1989). Memorabili, negli ultimi anni, la straordinaria mostra su Jannis Kounellis (Venezia, Fondazione Prada, 2019) e quella, non meno notevole, su Domenico Gnoli, che Celant curò fino all’ultimo ma non fece in tempo a vedere (Milano, Fondazione Prada, 2021-22).Nell’intervista che apre The story of (my) exhibitions Celant (che era nato a Genova nel 1940) imbastisce la tela della sua traiettoria di curatore di mostre: «Mi sono reso conto che per cinquant’anni ho praticato diverse scritture: la teorica, per la stesura di saggi e interpretazioni, l’editoriale, per la costruzione di libri e cataloghi, e l’espositiva», cioè la progettazione di mostre. Celant intendeva queste tre “scritture” come equivalenti: tre modi diversi di articolare di un discorso storico-narrativo o una tesi critica. Nel suo serrato argomentare, un posto specialissimo ebbe, nella sede veneziana della Fondazione Prada, When attitudes become form (2013) vero e proprio rifacimento “archeologico” della pionieristica mostra di egual titolo curata nel 1969 da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, a cui Celant aveva collaborato. Ma perché rifare tal quale una mostra a più di quarant’anni di distanza, basandosi sul meticoloso esame dell’archivio Szeemann conservato al Getty Research Institute di Los Angeles? Risponde Miuccia Prada nella premessa al catalogo: «Per comprendere se quella che era allora un’arte politica lo è ancora».La mostra di Szeemann, scrisse allora Celant, era come un insieme ready-made da riproporre all’identico; quanto alle inevitabili differenze (opere non rintracciate, materiali effimeri e così via), nel sapiente disegno espositivo esse avevano un ruolo non meno importante. Sottolineavano l’intervallo spazio-temporale, la presa di distanza, il valore cognitivo di un gioco di presenze e di assenze. Proprio come accade agli archeologi, l’insistenza di Celant sul rigore filologico della ricerca e della ricostruzione attirava l’attenzione sulle lacune, ma anche sulla necessità dell’archivio.Dall’una all’altra delle sue mostre tematiche, il cantiere di Celant sviluppa un’acuta coscienza dello spazio, un vigile sentimento della griglia temporale, un’ininterrotta esplorazione dei linguaggi. Come un direttore d’orchestra, egli seppe far risuonare le opere in mostra con la natura dell’ambiente espositivo, vissuto come un serbatoio di energia potenziale. Intrecciando alle ultimissime esperienze d’avanguardia la memoria documentale di qualche antefatto, lasciava irrompere nel vuoto delle stanze il troppo pieno della storia, ma anche il suo carattere sempre incompiuto. Esplorando la storia d’Italia dal 1918 al 1943 attraverso l’arte, la già ricordata mostra Post Zang Tumb Tuum compose come in mosaico una ricostruzione parziale di numerosi contesti espositivi. Ne usciva evidenziata la dinamica implicita fra ripetizione di allestimenti storici e innovazione nel riproporli secondo impensate adiacenze. Il visitatore si trovava così di fronte a un bivio: l’accurato ricorso alla documentazione implica lo scrupoloso rispetto della storia? O invece il trapianto di intere pareti espositive dal 1918 al 2018, un secolo dopo, è una forma di trasgressione?Al centro della pratica curatoriale di Celant fu sempre l’idea di proporre inedite relazioni fra le opere. Egli sapeva bene che ogni oggetto estetico presuppone il contesto da cui proviene, ma ne mostra ben poco; e tuttavia e componenti contestuali invisibili influiscono su quel che è visibile, e perciò possono innescare percorsi espositivi fondati sull’affinità o sul contrasto. Il curatore (se è della forza intellettuale di Celant) può farsi demiurgo, imporre un nome a un certo insieme di artisti o di opere, “inventare” per loro un’identità altrimenti nascosta. È quel che accadde con l’Arte povera, fortunatissima etichetta critica che Celant inscenò sin dal 1967 nella sua Genova, e che trovò consacrazione internazionale nella mostra di Szeemann a Berna (1969). Arte povera: appunti per una guerriglia s’intitola un suo testo seminale del 1967, una chiamata alle armi degli artisti, che non devono essere mero ingranaggio di un meccanismo produttivo, ma tesi a «un vivere asistematico, in un mondo in cui il sistema è tutto», a creare «un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’a-storico, con l’uomo “reale"». A parlare di guerriglia come modalità dell’agire anti-sistema nella cultura e nell’arte era stato già Herbert Marcuse (Eros e civiltà, 1966): sullo sfondo, i successi di Fidel Castro e Che Guevara a Cuba.Quale che possa essere, oggi, la percezione dell’Arte povera, in quegli anni il filo invisibile che Celant (lui solo) seppe cogliere suscitò vasta risonanza, chiamò a raccolta un’avanguardia che c’era già ma non lo sapeva, ne colse le valenze politiche non sempre (forse) interamente consapevoli, eppure già avviate verso una coralità che corrispondeva ai movimenti studenteschi di Berkeley o di Parigi. A un Sessantotto anch’esso, oggi, ampiamente descostruito, ma allora vibrante di fervori e di speranze. In quel contesto, aveva senso dire che le opere d’arte «non devono contrapporsi come arte rispetto alla vita, ma vivere come gesti sociali a se stanti, come liberazioni formative».Riflettendo su quegli anni nel 2013, Celant notò che «la resurrezione di When attitudes become form mette in circolazione lo spettro di una radicalità che oggi non ha più effetto, perché l’arte non è più un’arma politica rispetto alle lotte reali». Ma quello spettro di una radicalità politica oggi in esilio restava forse vivo in lui fino all’ultimo, in quel suo privilegiare le reti relazionali, e non i valori di mercato delle singole opere, come il vero oggetto del suo operare critico. Era lo spettro, anzi, di un’antica domanda delle sinistre radicali, spesso ripetuta nel Sessantotto e approdata in un’opera di Mario Merz: Che fare?.