la Repubblica, 19 aprile 2023
Il caso della foto che non è una foto
Certo, può risultare antipatico un fotografo che, ottenuto uno dei più prestigiosi premi internazionali del settore, lo rifiuta con un: marameo ve l’ho fatta. E in effetti, la direzione del Sony World Photography Awards s’è arrabbiata assai. Ma la questione sollevata dal tiro mancino di Boris Eldagsen, artista berlinese che si dedica da qualche tempo alle immagini prodotte dall’intelligenza artificiale, non è affatto banale, difatti sta mettendo a rumore la scena internazionale delle immagini e dividendo gli animi, come raramente era avvenuto prima, sulla questione ontologica: che cos’è dunque una fotografia? L’immagine che Eldagsen ha presentato al concorso ha tutto l’aspetto di una fotografia, anzi di una fotografia un po’ rétro, dal caldo viraggio ambrato. Struggente l’abbraccio della donna anziana a quella giovane, forse la figlia?, enigmatico lo sguardo di quest’ultima… Ma quelle due donne non sono mai esistite, almeno in questa forma e in questa posa: un programma autosufficiente di ricerca e ricomposizione di immagini le ha generate seguendo gli ordini verbali dell’artista. Ma così il noema fotografico scolpito nel marmo da Roland Barthes, “è stato”, salta per aria. O no? Perché il bello di questa storia, che la fa differente dalle truffe che a volte i concorrenti tentano in queste competizioni, è che Eldagsen non ha barato: le regole del concorso, per quella sezione creativa, ammettono fotografie manipolate con “qualsiasi strumento”. Ha solo fatto un po’, per sua stessa ammissione, ilcheeky monkey, il furbetto: il titolo dell’opera, Pseudomnesia – The Electrician, doveva forse insospettire (la prima parola significa “falsa memoria”). Solo dopo la vittoria ha spiegato all’organizzazione come era stata realizzata l’immagine; ricevendo una rassicurazione: il premio vale lo stesso. Non per il premiato, che salendo sul palco della cerimonia lo ha clamorosamente rifiutato. Le polemiche e le contromisure successive sono abbastanza prevedibili.Conviene che gli scandali avvengano, dicevano i latini: mai così vero. Finora il pittore automatico è stato un giocattolo con cui fabbricare finti ma realistici reportage sul movimentato arresto di Trump, o sui funerali di Berlusconi, o falsi ritratti del papa avvolto in un candido piuminogriffato. Ma adesso i piedi sono nel piatto: quali rischi corriamo se accettiamo di chiamare fotografie le composizioni mirabolanti di Midjourney e dei suoi colleghi algoritmici? Sembra proprio di rivivere, ma ogni volta più caoticamente, le bizantine diatribe che accompagnarono prima l’avvento della fotografia digitale («Accidenti, non c’è più il legame indicale con la realtà!») e poi di Photoshop («Accidenti, adesso salta anche il legame referenzale!»). Polemiche squisitamente essenzialiste, quasi teologiche, che si spensero prima di aver risolto le loro angosce. Ma adesso? Le immagini AI non sono più come le fotografie manipolate, di cui un grande fotografo, Lewis Hine, diceva: «Le fotografie non sanno mentire ma i bugiardi sanno fotografare». Sono immagini radicalmente differenti per genesi, che non dovrebbero rifugiarsi sotto l’ombrello di quelle che chiamiamo da quasi duecent’anni fotografie: così Eldagsen spiega l’obiettivo della sua provocazione. Ha ragione? C’è già una forte spinta a chiuderle in un altro recinto, sotto l’insegna “sintografie”, ovvero immagini di sintesi. Peccato che sia un recinto pieno di buchi, da cui le sintografie scappano camuffate da fotografie e rischiano di ingannarci dagli schermi selvaggi del Web. Si invoca allora qualche sorta di polizia iconografica che smascheri, segnali, arresti e punisca le immagini contrabbandiere. Ma lo si propose anche vent’anni fa, quando Photoshop nacque. E come allora, il risultato è che si attribuisce tutta la falsità alle sintografie, assolvendo come innocenti le “vere fotografie”, che però non sono mai esistite, perché le fotografie, ce lo ha ripetuto fino all’esasperazione Joan Fontcuberta, mentono sempre, da un minimo che non è mai zero a un massimo che tende all’infinito. Sta al lettore non farsi ingenuo adoratore dell’immacolata percezione. Non recinti, etichette o polizie, ma spirito critico e dubbio metodico ci possono proteggere dalla fiera delle falsità. Anche perché, non ce ne siamo bene accorti, ma le immagini fabbricate dall’AI ci sembrano così realistiche non perché somiglino alla realtà, ma perché somigliano a delle fotografie. E in questo modo rendono un perfido e interessato omaggio alla presunzione di veridicità della benedetta invenzione di Daguerre, che invece andrebbe una buona volta rimessa al suo posto, quello di macchina per condividere una visione semilavorata da una opinione.