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 2023  aprile 19 Mercoledì calendario

La battaglia di Kavita e Ankita per una vita arcobaleno

Kavita e Ankita si conoscono da 17 anni, vivono insieme da 10 anni e il 23 settembre del 2020 hanno chiesto di sposarsi. Permesso negato. Perché sono due donne e la legge non permette la registrazione di matrimoni gay. E in India, nel Paese dove ancora i matrimoni combinati dalle famiglie sono la norma, la coppia sta lottando per cambiare la legge. Kavita Arora e Ankita Khanna, una psichiatra e l’altra terapeuta, hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Delhi, chiedendo la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’ordine alle autorità di registrare il loro matrimonio. Kavita e Ankita sono due pioniere, fanno parte di quella schiera di persone che spingono la storia in avanti. Senza di loro, senza le loro battaglie, l’asticella dei diritti non si alzerebbe mai. Loro vogliono poter essere come tutte le altre coppie: avere il diritto di aprire un conto in banca congiunto, ottenere una polizza assicurativa sanitaria, possedere una casa insieme o scrivere un testamento. Nella loro petizione, Ankita e Kavita affermano che «ciò che chiediamo non è il diritto di essere lasciati soli, ma il diritto di essere riconosciuti come uguali». I loro avvocati sostengono che la costituzione indiana parla di matrimonio tra due persone e non tra un uomo e una donna. Le questioni sono epocali.
Cambia prima la società e le leggi si adeguano o basta cambiare una legge per far sì che una società cambi? In genere le due cose vanno di pari passo, ma senza le pioniere (e anche i pionieri, eh!) i cambiamenti non avvengono. Ora Kavita e Ankita stanno tentando di dare la spallata finale a un sistema in vigore da secoli e c’è grande attesa per la sentenza della Corte Suprema indiana, che dovrebbe arrivare a giorni.
Dopo le nostre due pioniere, altre 18 coppie omosessuali hanno infatti presentato una petizione alla Corte Suprema. Tre di queste coppie stanno già crescendo dei figli insieme. Il presidente della Corte Suprema, DY Chandrachud, ha definito la questione di «importanza fondamentale» e ha istituito una corte costituzionale di cinque giudici che si occupa di importanti questioni di diritto. Cambierà la legge? Il Paese sembra pronto. Secondo le stime del governo (e risalgono al 2012, quindi dati probabilmente in difetto) in India ci sono 2 milioni e mezzo di persone appartenenti alla comunità LGBTQ+. Ma altri calcoli, effettuati sulla base di stime globali, parlano del 10% dell’intera popolazione, ovvero più di 135 milioni. Sempre per capire come cambiano le società e le opinioni, un sondaggio Pew del 2020 dice che anche in India è cresciuta l’accettazione dell’omosessualità: il 37% delle persone afferma che l’omosessualità dovrebbe essere accettata, con un aumento del 22% rispetto al 15% del 2014, la prima volta che la domanda è stata posta nel Paese.
Tra i due rilevamenti c’è una data spartiacque: il febbraio 2018, quando una sentenza della Corte Suprema ha depenalizzato il sesso omosessuale. Prima era un reato, gli omosessuali che venivano beccati a fare sesso erano considerati dei criminali e venivano condannati a dieci anni di carcere e/o alla riabilitazione in ospedali psichiatrici, per «raddrizzare» l’anomalia, per «curare» la malattia, anche con l’elettroshock. Norme dell’era coloniale, che fanno pensare alla persecuzione di personaggi come Oscar Wilde o Alan Turing. Quella sentenza del 2018 aveva fatto fare all’India un salto di 157 anni in un colpo solo, abolendo una legge ignominiosa nota come Sezione 377, secondo la quale il sesso gay era un atto contro natura e quindi da punire.
Anche allora gli attivisti, avvolti nelle bandiere arcobaleno, sventolando palloncini colorati, si erano accampati fuori dal tribunale e alla lettura della sentenza avevano ballato, si erano abbracciati, baciati, ed erano scoppiati in lacrime di felicità. Oggi le udienze del processo sono trasmesse in live streaming, perché tutti possano seguire.
Ma l’India è un grande Paese. Nelle maggiori città indiane l’opinione pubblica si è espressa a favore dell’abolizione della legge e oggi sostiene i matrimoni omosessuali. Tutt’altri sentimenti aleggiano nelle campagne, nelle comunità rurali conservatrici e tra i gruppi religiosi. Le petizioni e la conseguente attesa sentenza sono riuscite in un’impresa biblica: unire i leader di tutte le principali religioni indiane – indù, musulmani, giainisti, sikh e cristiani. Tutti si sono opposti all’unione tra persone dello stesso sesso, con argomenti che ben conosciamo, principalmente insistendo sul fatto che il matrimonio «è per la procreazione, non per la ricreazione», che avrebbe un «impatto devastante sui bambini, sulla famiglia e sulla società» e che potrebbe aumentare i casi di Aids.
Il governo indiano da parte sua ha depositato un documento di 102 pagine in tribunale affermando che le petizioni «riflettono semplicemente opinioni elitarie urbane» e ha esortato la Corte Suprema a respingere le petizioni, affermando che il matrimonio può avvenire solo tra un uomo e una donna eterosessuali. «La convivenza e le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso non sono paragonabili al concetto di unità familiare indiana di un marito, una moglie e dei figli», ha sostenuto il ministero della Legge. Il ministero ha aggiunto che non si può chiedere alla Corte di «cambiare l’intera politica legislativa del Paese, profondamente radicata nelle norme religiose e sociali» e che la questione dovrebbe essere lasciata al dibattito parlamentare.
Le due pioniere hanno dichiarato alla Bbc: «Sapevamo che ci sarebbe stata opposizione, che non sarebbe stata una passeggiata. Ma abbiamo scelto di intraprendere questo viaggio, questo è ciò che abbiamo iniziato, vediamo dove ci porterà». Se vinceranno la loro battaglia, l’India sarà il Paese numero 35 al mondo ad aver approvato i matrimoni gay. —