la Repubblica, 19 aprile 2023
La lezione dell’Iri
Caro Direttore, da un punto di vista politico, la battaglia per le nomine degli amministratori delle maggiori società italiane a partecipazione pubblica è andata come si poteva prevedere. Doveva servire a misurare la forza dei partiti della maggioranza e il peso della leadership della presidente del Consiglio. Così è stato ed è finita esattamente come con i governi di coalizione del passato: ogni partito si è preso la sua fetta.
Purtroppo, però, nel tira e molla che ha preceduto le scelte del governo, non è stato mai sfiorato il tema della guida, della “testa”, di un patrimonio societario così vasto. E, cioè, se e come le società a controllo pubblico debbano sentirsi parte di una unica squadra e fare “gruppo”.
In una parola, siamo certi che mantenere, per ragioni extra industriali, l’azionariato di queste società suddiviso tra il ministero dell’Economia (Mef) e la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sia la soluzione migliore? Non c’è da valutare solo l’evidente diseconomia della presenza di due azionisti, ma anche se il ministero e la Cassa posseggono l’esperienza e le professionalità necessarie.
La questione non è di poco conto. La politica industriale delle aziende il cui capitale è controllato dallo Stato dipende dagli indirizzi del governo. Questo è fuori discussione. Ma è meno facile individuare “come” il governo possa esercitare al meglio i suoi poteri di azionista. La guida di un gruppo di grandi aziende non è una funzione solo amministrativa o finanziaria. Non è compito di un ministero, né di una banca. Le preoccupazioni per il mantenimento degli impegni presi dall’Italia con il Pnrr, confermano quanta professionalità e capacità manageriale servano per la “messa a terra” dei progetti governativi.
Nel trentennio del miracolo economico questo compito era affidato a una holding industriale, l’Iri, che aveva la responsabilità di tenere insieme un patrimonio azionario molto variegato, trasformandolo in un “gruppo” compatto a servizio della politica industriale del Paese.
In quel tempo, senza l’apporto dell’Iri i governi del boom non avrebbero mai potuto determinare le condizioni di base della ricostruzione e della modernizzazione dell’Italia. Disporre di un parco tanto vasto di partecipazioni può essere per lo Stato uno straordinario strumento di politica industriale. Ma senza una “testa” industriale che sappia coordinare l’azione delle partecipate, è impossibile promuovere una strategia in grado di “mettere a sistema” società ben amministrate e con oggetti sociali molto diversi. Il dibattito delle ultime settimane ha dato l’impressione che una volta raggiunto l’accordo tra i partiti di maggioranza sulla nomina degli amministratori, il governo italiano abbia considerato esaurito il senso della presenza dello Stato nell’economia.
Non una parola sul funzionamento di un sistemavisibilmente scollegato.
Negli ultimi tempi l’azionariato pubblico ha raggiunto dimensioni simili a quelle del dopoguerra. Dopo le privatizzazioni di trent’anni fa, allo Stato è rimasto il controllo di grandi aziende strategiche come Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Poste Italiane, Rai, Enav e Terna. Poi, tra acquisizioni e salvataggi, il comparto pubblico si è di ulteriormente ingrandito col controllo di Autostrade, dell’ex Alitalia, di Mps, della Popolare di Bari, della galassia di Invitalia, sino al “quasi” controllo dell’ex Finsider di Taranto e all’interesse di Cdp per la rete Tim.
Lasciamo ad altro momento la valutazione degli effetti sul mercato di questa oggettiva dilatazione della presenza dello Stato. C’è solo da dire, senza scomodare Keynes, che in tutte le grandi crisi sono sempre necessari investimenti pubblici. Il controllo di un consistente patrimonio industriale da parte dello Stato può aver senso solo se la sua missione pubblica va oltre i risultati d’esercizio delle singole imprese.
Se non si tratta solo di valorizzare le potenzialità di ciascuna impresa, se c’è la volontà di cogliere i vantaggi di una gestione coordinata delle partecipate, allora questo compito non può essere affidato né a una nuova direzione del Mef, né alla Cdp. Perché la loro natura, la loro missione e le loro esperienze sono molto diverse.
Molto meglio una nuova holding, controllata dallo Stato attraverso il Mef. Una holding che, per managerialità e professionalità, sia in grado di dare attuazione agli indirizzi politici dell’azionista governo. Non si tratta di rifare l’Iri, la cui formula di Ente di gestione non è al passo con i tempi. Si tratta di prendere atto che la guida dell’insieme delle partecipazioni dello Stato non può prescindere da un nuovo assetto della loro “testa” industriale.
L’azione dello Stato, se ben indirizzata, può determinare come nel dopoguerra un salto in avanti dell’intero sistema industriale italiano. Più collaborazione con l’industria privata, più autorevolezza nei mercati internazionali, più Pil, più produttività, più lavoro.
La realizzazione di un obiettivo tanto ambizioso dev’essere lineare. I ruoli del Mef e della Cdp sono una cosa. La gestione industriale delle partecipazioni pubbliche è un’altra cosa. Uno Stato saggio sa rispettare la distinzione dei ruoli.
Un solo post scriptum. L’azionista dell’Eni dev’essere, direttamente o indirettamente, la presidenza del Consiglio. Dalla nascita della Repubblica, per evidenti ragioni geopolitiche, il presidente del Consiglio ha sempre esercitato personalmente le funzioni di indirizzo sull’Eni.
Sarebbe corretto se questa condizione potesse proseguire.