la Repubblica, 19 aprile 2023
Viaggio in Cina nell’epoca della sfiducia
Sono appena rientrato da un viaggio in Cina. Il primo dalla comparsa del Covid. Trovarmi nuovamente a Pechino mi ha riportato alla mente la mia prima regola del giornalismo: se non vai, non sai. I rapporti tra i nostri due Paesi si sono deteriorati così profondamente e rapidamente e hanno ridotto i punti di contatto tra noi e loro da renderci simili a due enormi gorilla che si scrutano attraverso una piccola fessura. Una situazione da cui non potrà venire nulla di buono. La recente visita della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen negli Stati Uniti non ha fatto che confermare quanto il clima si sia ormai surriscaldato. Il minimo passo falso di una o dell’altra parte rischia di far scoppiare tra Usa e Cina una guerra al confronto della quale il conflitto in Ucraina apparirebbe una rissa condominiale.
Questo è uno dei motivi principali per i quali ho ritenuto utile tornare a Pechino. L’aspetto nuovo è molto legato alla crescente importanza che la fiducia e l’assenza di fiducia giocano nei rapporti internazionali, adesso che tanti dei beni e servizi che Stati Uniti e Cina si vendono reciprocamente sono digitali, e quindi “dual use”, in grado di avere un’applicazione sia civile che militare. E adesso che la fiducia è diventata un elemento fondamentale, tra Cina e Usa essa è scesa a livelli bassissimi con un tempismo infausto. Democratici e repubblicani fanno quasi a gara a chi usa i toni più duri riguardo alla Cina. A dire il vero, entrambi i Paesi di recente hanno demonizzato l’altro, al punto da farci dimenticare quanti punti in comune uniscano invece i nostri popoli. Il viaggio mi ha anche ricordato il formidabile peso di ciò che la Cina ha costruito a partire dagli anni Settanta, quando si aprì al mondo; o dagli inizi del Covid, nel 2019. Il governo del Partito comunista esercita sulla società cinese una presa estrema, grazie a una sorveglianza da Stato di polizia e ai sistemi di tracciamento digitali.
Detto questo, non bisogna farsi illusioni: la tenuta del Partito comunista è anche il prodotto del duro lavoro e dei risparmi del popolo cinese, che hanno permesso al partito e allo Stato di costruire una infrastruttura di prim’ordine e beni pubblici che migliorano la vita della gente. Pechino e Shanghai sono diventate città molto vivibili. Come ha scritto sul New York Times Keith Bradsher, nel 2021 Shanghai aveva da poco realizzato 55 nuovi parchi, portando il totale delle aree verdi a 406, e stava pianificando di realizzarne quasi seicento in più. Nel Paese i treni ad alta velocità raggiungono quasi 900 città. Negli ultimi 23 anni l’America ha costruito un’unica sorta di linea ad alta velocità, che effettua 15 fermate tra Washington e Boston. Per un americano, oggi, volare dal Kennedy di New York all’aeroporto di Pechino significa lasciarsi alle spalle un terminal affollatissimo per ritrovarsi in un luogo futuristico che ricorda Disneyland. È buffo, però: proprio quando inizi a preoccuparti delle condizioni dell’aeroporto Kennedy e di tutti i racconti secondo i quali la Cina negli ultimi anni ci stava superando nel campo dell’intelligenza artificiale, un team americano – OpenAI – ha annunciato la creazione del più importante strumento di comprensione del linguaggio naturale al mondo, tale da permettere a chiunque di intrattenere conversazioni “umane”, porre domande e riuscire a comprendersi afondo in tutte le principali lingue.
Nel campo dell’intelligenza artificiale la Cina è partita avvantaggiata grazie alla tecnologia per il riconoscimento facciale e l’accesso ai dati medici della popolazione. Ma l’intelligenza artificiale generativa, così come ChatGpt, rende possibile a chiunque di fare qualsiasi domanda, nella propria lingua. E questo per la Cina potrebbe rappresentare un problema che la costringerà a erigere all’interno dei suoi sistemi di IA generativa molte barriere per limitare le domande e le risposte che il computer può dare. Se non tutte le domande sono ammesse il sistema di intelligenza artificiale, sempre teso a capire cosa, dove e chi censurare, sarà meno efficace.
Per tutti questi motivi, quello di soppesare il mutevole rapporto di poteri tra America e Cina è diventato un passatempo molto diffuso tra le élite dei due Paesi. Molti cinesi, ad esempio, hanno assistito tramite i social a parte del dibattito del 23 marzo a Capitol Hill, in cui membri del Congresso hanno interrogato (o piuttosto rimproverato, ammonito e costantemente interrotto) l’amministratore delegato di TikTok, Shou Chew, affermando che i video di TikTok danneggiano la salute mentale dei giovani americani.
Ho fatto a investitori, analisti e funzionari americani, cinesi e taiwanesi una domanda che mi assillava: per che cosa stanno litigando, esattamente, Usa e Cina? Molti hanno esitato. E molti hanno risposto con una sorta di: «Non ne sono sicuro, so solo che la colpa è LORO». Sono certo del fatto che a Washington riceverei risposte analoghe. La parte migliore del viaggio è stata quella incentrata sulla ricerca di una reale risposta alla mia domanda, e sul motivo per cui essa disorienta tante persone. La risposta è ben più profonda e complessa di un semplice “Taiwan”, o di un “si tratta dello scontro tra autocrazia e democrazia”.
Il deteriorarsi dei rapporti tra Usa e Cina è il risultato di qualcosa di antico e ovvio: la storica rivalità tra una grande potenza in carica (noi) e una grande potenza in asc esa (la Cina). Ma esistono anche molti nuovi elementi. Di antico e ovvio vi è il fatto che Cina e Usa duellano per assicurarsi un maggior peso economico e militare che permetta loro di definire le regole del XXI secolo nel modo più vantaggioso per i rispettivi sistemi economici e politici. E una delle regole contese riguarda la rivendicazione di Taiwan da parte di Pechino come “Una sola Cina”. Dal momento che quella “regola” rimane oggetto di disputa, noi continuiamo ad armare Taiwan per scoraggiare Pechino dall’impadronirsi dell’isola, mentre la Cina continuerà a insistere per ottenere una riunificazione. Una delle novità sta nel fatto che questa rivalità riguarda due nazioni che dal punto di vista economico sono intrecciate l’una con l’altra. Un’ulteriore novità ha a che fare con l’importanza che l’elusivo tema della fiducia e dell’assenza di fiducia hanno improvvisamente iniziato ad assumere nell’ambito degli affari internazionali. Ciò è dovuto al nuovo ecosistema tecnologico in cui apparecchi e servizi si basano su microchip e software, e sono collegati a data center collocati nel cloud e a Internet ad alta velocità. Quando un numero così elevato di prodotti e servizi è digitalizzato e connesso, molte tecnologie diventano “dual use”, ovvero tali da poter esserefacilmente convertite da strumenti civili ad armi digitali, e viceversa.
Per una trentina di anni a partire dal 1978-79, quando Pechino si aprì agli scambi commerciali con il mondo, la Cina ha venduto all’America molti di quelli che io chiamo beni “leggeri”, come scarpe, calzini, magliette e pannelli solari. Nel frattempo Usa e Occidente tendevano a vendere alla Cina beni “pesanti” e dual use: software, microchip, larghezza di banda, smartphone e robot. La Cina era costretta ad acquistare i nostri prodotti “pesanti” perché sino a tempi relativamente recenti non è stata quasi in grado di produrne. Sino a quando la Cina ci ha venduto soprattutto prodotti “leggeri”, il suo sistema politico non ci interessava granché. Circa otto anni fa, però, qualcuno ha bussato alla nostra porta. Era un venditore cinese, che diceva: «Salve, il mio nome è Huawei e produco componenti per la telefonia 5G migliori di quelli che voi usate. Sto iniziando a installarli in tutto il mondo, e mi piacerebbe approdare anche in America». Ciò che l’America ha risposto a questo signor Huawei, e ad altre aziende tecnologiche cinesi in ascesa, è stato: «Quando le compagnie cinesi ci vendevano solo beni leggeri a noi non importava che il vostro sistema politico fosse autoritario, libertario o vegetariano. Adesso che invece volete venderci beni pesanti e dual use non ci fidiamo abbastanza di voi da comprarle. E quindi mettiamo al bando Huawei e spendiamo di più pur di acquistare i nostri sistemi di telecomunicazioni 5G da compagnie scandinave di cui ci fidiamo: Ericsson e Nokia».
Il ruolo della fiducia nei rapporti e negli scambi commerciali internazionali si è accresciuto anche per un altro motivo: mentre un numero crescente di prodotti e servizi diventavano digitali ed elettrici, i microchip sono diventati il petrolio dei nostri giorni. Il ruolo che il greggio rivestiva nelle economie del XIX e XX secolo, nel XXI è occupato dai microchip. Oggi, i Paesi che riescono a produrre i microchip più veloci, potenti ed efficienti sono in grado di realizzare i migliori computer di intelligenza artificiale e di imporsi negli affari economici e militari. C’è però un problema: poiché la tecnologia necessaria a creare chip logici avanzati è estremamente complessa, nessuna nazione e nessuna azienda possono, da soli, rifornire tutto il mercato. Occorre trovare i prodotti migliori, prendendoli ovunque li si trovi. E nella catena di approvvigionamento che si viene a creare, ogni elemento è così strettamente connesso agli altri che le aziende hanno bisogno di potersi fidare ciecamente le une delle altre. La Cina non ha bisogno di guardare molto lontano per rendersene conto. Le basta sollevare lo sguardo oltre lo Stretto di Taiwan, dove sorge la più grande ditta di produttrice di chip al mondo: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co., più nota come Tsmc.
Alla morte di Mao Zedong il successore Deng Xiaoping impose alla Cina una leadership di tipo più collettivo, stabilì limiti di mandato per i dirigenti e pose il pragmatismo al di sopra dell’ideologia comunista. Nell’era di Deng e dei suoi successori Pechino strinse solidi legami economici e scolastici con gli Stati Uniti, facendo approdare la Cina nell’Omc, a patto che il Paese si impegnasse ad abbandonare gradualmente la pratica mercantilistica di finanziare le industrie statali e si aprisse un po’ alla volta agli investimenti stranieri. Xi si dimostrò invece allarmato dal fatto che l’apertura della Cina al mondo, una visione della leadership troppo legata al consenso popolare e l’avvicinarsi del Paese a uno stile di vita semi-capitalista avessero portato a una corruzione dilagante sia all’interno del Partito comunista che dell’Esercito popolare di liberazione – al punto da minare la legittimità stessa del Partito. Queste considerazioni lo spinsero ad accentrare il potere nelle proprie mani. Xi, inoltre, prese le distanze dalla liberalizzazione del settore privato messa in atto da Deng, focalizzando invece la propria attenzione sulla costruzione di “campioni” dell’economia nazionale che potessero imporsi su tutte le industrie chiave del ventunesimo secolo e volle assicurarsi che le cellule del Partito comunista fossero parte attiva nella gestione di queste imprese e ben radicate tra la forza lavoro.
Oltre all’incapacità della Cina a fare chiarezza su quelle che sapeva essere le origini del Covid-19, all’opposizione alle libertà democratiche di Hong Kong e della minoranza musulmana uigura nello Xinjiang, all’aggressività con cui il Paese tenta di imporsi nel Mar cinese meridionale, al suo atteggiamento ancor più minaccioso nei confronti di Taiwan e al suo avvicinamento a Vladimir Putin, anche l’ambizione di Xi di rendersi presidente a vita, il suo sabotaggio degli imprenditori cinesi del settore tecnologico, l’inasprimento delle restrizioni alla libertà di espressione e l’occasionale sequestro di qualche importante uomo d’affari cinese hanno fatto sì che in un mondo di beni pesanti e dual use, dominato da software, connettività e microchip, la fiducia che la Cina aveva costruito in Occidente evaporasse. Mentre questo accadeva, le nazioni occidentali iniziarono a dare molta più importanza al fatto che la Cina fosse un Paese autoritario.
Mi piacerebbe vivere in un mondo in cui il popolo cinese prosperi accanto a tutti gli altri. Dopotutto, i cinesi rappresentano più di un sesto degli abitanti del pianeta. Non credo che siamo destinati a un conflitto. Penso che siamo piuttosto destinati a competere tra noi, a cooperare e trovare un equilibrio. Se così non fosse, ci aspetta un XXI secolo pessimo. Devo dire, però, che americani e cinesi mi ricordano per certi versi israeliani e palestinesi: entrambi sono bravissimi ad alimentare le insicurezze più profonde dell’altro.
Il Partito comunista è convinto che l’America voglia eliminarlo, come alcuni politici Usa non hanno più remore a suggerire. E pur di scongiurare questa eventualità Pechino è disposta ad andare a letto con Putin, un criminale di guerra. Dal canto loro, gli americani temono che la Cina, che si è arricchita sfruttando a proprio vantaggio un mercato globale forgiato dalle regole americane, utilizzi il suo potere di mercato per modificare a proprio vantaggio quelle stesse regole.
Non so cosa potrebbe bastare a invertire queste tendenze, ma credo di sapere cosa occorrerebbe per riuscirvi. Se la politica estera Usa non ha l’obiettivo di rovesciare il regime cinese, gli Stati Uniti dovrebbero manifestarlo chiaramente. Inoltre, credere che l’America potrebbe prosperare di fronte a un tracollo economico della Cina è un’illusione. Anche l’idea che gli europei continueranno in ogni caso a seguirci in questa nostra battaglia potrebbe essere priva di fondamento.
Quanto alla Cina, può illudersi quanto vuole di non aver compiuto una retromarcia negli ultimi anni, ma nessuno le crederà. In un mondo iperconnesso, digitalizzato e dual use, la Cina non potrà mai realizzare il proprio potenziale a meno di non rendersi conto che il più importante vantaggio competitivo che un Paese o un’azienda possano assicurarsi è quello di costruire e mantenere rapporti basati sulla fiducia. E ad oggi Pechino non ne è capace.
Nella sua splendida biografia del grande statista americano George Shultz, Philip Taubman cita una delle regole cardinali di Shultz riguardo alla diplomazia e alla vita: “La fiducia è la moneta del reame”. Una regola che non è mai stata tanto vera quanto oggi. E la Cina non ha mai avuto più bisogno di farla propria.