Corriere della Sera, 19 aprile 2023
Intervista a Antonio Pappano
Dear Audience in inglese non si dice. Dear People suona male. Ci sarebbe Ladies and Gentlemen, ma Antonio Pappano dice che nel mondo anglosassone non si può più dire, per una questione di «genere» della cancel culture. Insomma, quel Caro pubblico che è quasi un brevetto inventato da Pappano, tanto semplice quanto efficace con cui spesso con la sua affabilità flautata si rivolge alla platea dell’Accademia di Santa Cecilia, non è esportabile. Di sé dice «noi forestieri», e più in là «noi italiani». C’è tutta la sua anima scissa in due: lui per la verità dice che è scissa in tre, perché bisogna aggiungere gli Stati Uniti. Il direttore nato in Inghilterra, trasferitosi a 14 anni in Usa nel Connecticut, ha speso una parte consistente dei suoi ultimi diciotto anni a Roma, come direttore musicale dell’Accademia di Santa Cecilia. Ha solidissime radici italiane. Papà Pasquale gli ha trasmesso l’amore per la musica e aveva due lavori, cuoco in un ristorante e insegnante di canto; era della provincia di Benevento, come mamma Carmela. Da ragazzo è cresciuto in un quartiere popolare della Capitale inglese. Il 6 maggio dirigerà il concerto per l’incoronazione di Carlo III a Londra,
dove resterà come direttore della London Symphony Orchestra.
Maestro, un bel salto, in un Paese dove il concetto di classe è così alto...
«Sì. E l’Abbazia di Westminster è a cinque minuti a piedi dalla casa popolare in cui vivevo, in un quartiere costruito con il finanziamento di un ricco americano».
Quel giorno indosserà il suo solito camicione nero?
«Ovviamente no, anche se mi ci sento così a mio agio. Un sarto inglese sta finendo il frac. Il programma del concerto è eclettico. Carlo ha commissionato diversi pezzi nuovi, orecchiabili, comunicativi, non d’avanguardia. Ci sono musiche prima e durante il rito: da Elgar a Walton a Lloyd Webber e pezzi rinascimentali inglesi. Il programma include musica di Scozia, Galles e Irlanda. Sarà celebrativa e non troppo sobria. Tutto è stato considerato».
Conosce Carlo?
«Mi nominò baronetto. Ho avuto occasione di parlare con lui più volte, gli piace Wagner e per i suoi 70 anni nella enorme sala da ballo di Buckingham Palace ho diretto la terza scena del primo atto della Valchiria. La regina Elisabetta era più per i cavalli e i cani, ed era molto interessata alla politica, voleva sapere, tenersi informata. Carlo è anche uomo di terra, ha il pollice verde, ed è simpatico».
Lei ci disse che a Londra ha imparato la disciplina, in America la mentalità aperta. E in Italia?
«Sono stato fortunato, ho avuto questa dose di italianità e di amicizie che comprendono l’ospitalità, il cibo, la ricchezza per gli occhi. Quello che Roma trasmette a un forestiero. Una specie di medicina, da una parte ho potuto vedere bellezza e calore umano, dall’altra i conflitti tra le persone, le discussioni vivaci. La vita qui è molto vissuta, ho avuto a che fare con l’emotività, a Londra è diverso e io forse sono più inglese. Tanto tempo a Roma se ne va per rogne amministrative. Però mi sento in famiglia anche qui».
Il momento più bello di questi 18 anni?
«Le tournée, che misurano la credibilità internazionale, dove siamo giudicati tutti in un’altra maniera, e lì si crea davvero una famiglia artistica. Siamo stati in 100 città del mondo (e abbiamo fatto 34 incisioni discografiche). Ricordo l’Ottava di Bruckner alla Frauenkirche di Dresda, il crocifisso contorto dalle bombe al fosforo degli inglesi durante la Seconda guerra, la musica che si fa preghiera, un pezzo monumentale che penetra nel mistero, nel conflitto tra il bene e il male. Ecco, quello non lo posso dimenticare. Se sono religioso? Trovo la spiritualità in quello che faccio. Essere davanti a tanti cattolici è raro per me».
Perché andaste in Usa?
«Era morta mia sorellina, Incoronata. I miei oltre al dolore avevano un’inquietudine dentro, il lutto fu la spinta a cercare una nuova vita. Emigrare, raccogliere la roba e con poche sterline trasferirsi in un altro Paese, non so se avrei avuto la forza di farlo. Penso a tutte le vite che ho avuto. Come direttore, rimango a lungo: 10 anni a Bruxelles, 22 alla Royal Opera House di Londra, 18 a Roma».
Se ripensa alla sua prima adolescenza in Inghilterra?
«A scuola andavo a Pimlico, nel West End, adesso è un quartiere trendy ma all’epoca, nel cuore della città, in piena Swinging London, molte case avevano un aspetto grigio e decadente. A scuola i compagni mi prendevano in giro per il cognome, mi chiamavano Pappino, Pappone. Chiesi di cambiarlo in Mr Smith. In Usa, a Bridgeport, al piano aiutavo papà alle lezioni con i cantanti, poi correvo in Chiesa dove suonavo l’organo, la sera in un piano bar. Cantavo l’Ave Maria ai matrimoni e suonavo ai funerali. Questo ha plasmato la mia duttilità. Mi manca non aver fatto studi accademici, mi manca il confronto con gli altri allievi».
Da giovane è stato assistente di Daniel Barenboim.
«Mi disse che suonavo il piano come se dirigessi un’orchestra. La tecnica si impara. Mi fece capire che ogni gesto è unico e che tutto è connesso: il cervello, il cuore, l’esperienza. E la base è nello stomaco, da lì vengono forza, energia e capacità di comunicare. Daniel incarna l’idea della completezza dell’artista».
Ha visto «Tár», il film sulla direttrice d’orchestra?
«Ho trovato troppo lunga la prima parte e troppo corta la seconda. Cate Blanchett è affascinante, suona lei il piano e ha imparato il gesto. Ma non si capisce perché quella musicista è una cattiva persona, cosa abbia fatto di male; e poi certe cose non succedono, a un violoncellista di fila non dai il ruolo da solista, e questo ha creato alcuni malumori».
Il podio resta dei maschi?
«Molte cose stanno cambiando, nascerà il Karajan femminile, ma dovrà essere un processo naturale. Quanto a chi chiede di essere chiamata direttore e non direttrice, non è un tema interessante, è solo una perdita di tempo».
Lei ogni tanto rinuncia alla bacchetta.
«Avevo l’epicondilite. E mi sentivo più libero senza. Con la bacchetta lo sforzo è minore, mi sembrava di essere meno bravo, ora sono a mio agio, la uso. Ma domani potrei cambiare idea».
E se lei avesse la bacchetta magica?
«Mi piacerebbe andare al di là degli appassionati, avvicinare alla musica quanta più gente possibile, far capire che andare ai concerti è la cosa più normale che ci sia».
In cosa si è romanizzato?
«Beh, prima non bevevo caffè. E non ero così aperto quando parlavo».