La Stampa, 18 aprile 2023
Gli anni di Torino di Curzio Maltese
Estrato di Azzurro. Stralci di vita di Curzio Maltese
Torino per me era l’odore di fabbriche e ferrovie. In realtà ci ero sempre andato solo per lo stadio. Appena mi sono trasferito, ho capito che era una città elegante e profumata. Il centro con le piazze e i caffè signorili, il Museo egizio, il parco del Valentino e poi Superga, Moncalieri, la reggia di Venaria, le montagne. Non mi sarei mai immaginato un concentrato di tanta bellezza. Fare il giornalista qui poi era tutta un’altra cosa. A Milano contavano solo il Corriere della Sera e la Repubblica, gli altri giornali erano fuori dal gioco.
Vivere a Torino era diverso, potevo permettermi una casa in collina dietro alla Gran Madre con la mia fidanzata Sara ed ero in qualche modo accettato dal gotha della città. Viaggiavo molto e mi piaceva, come mi piaceva ritornare a casa il tempo necessario per ripartire di nuovo.
Gli anni passavano e a un certo punto cominciai a sentire un malessere, che non mettevo bene a fuoco, ma capivo che avevo bisogno di altro. Il direttore di allora della Stampa, Gaetano Scardocchia, mi chiede di seguire il Giro d’Italia, e per la prima volta ho delle reticenze. La mia giovinezza di rivoluzionario mancato pretendeva impegni più appassionanti che non girare il mondo inseguendo la parabola di un pallone da calcio o da basket, i rimbalzi di una pallina da tennis o le piroette dei ginnasti olimpici. Un periodo della vita che oggi naturalmente mi suscita una straziante nostalgia. Insomma, cominciavano ad andarmi strette le pedivelle, bramavo di suicidarmi con la politica. Ma due grandi scrittori di sport, Mario Fossati e Gian Paolo Ormezzano, mi convinsero ad accettare. «Non perdere l’occasione. L’Italia è il più bel Paese del mondo. Quando mai ti capiterà di poterla girare per un mese intero a sessanta all’ora e con l’autista?». Il vero viaggio era tra le parole, i sentimenti, i sogni di un’Italia di provincia dove dilagava una borghesia televisiva nei gusti e nella formazione, ricchissima eppure anonima, senza voce né rappresentanza, e furiosa di esserlo. Nessun’altra esperienza politica fu più utile di quel Giro per capire l’epoca a venire, da Mani pulite alla vittoria di Berlusconi. Ancora oggi consiglio a chiunque voglia indagare l’anima del nostro Paese – giornalisti, scrittori, politici – un’estate da suiveur.
È stato al Giro d’Italia che ho conosciuto Gino Bartali. Ricordo l’emozione di stringere la mano per la prima volta a quell’omone buono. Abbiamo passato tante serate insieme. Mi cercava spesso, mi aveva preso in simpatia. Mi sgridava anche, come fossi un nipote. Mi diceva sempre che mangiavo troppo poco. «Devi mangiare, altrimenti come fai?».
«Eh, lo so, ma non ho fame».
«Che sciocchezze. Tutti hanno fame. Mangia la “ciccia”, su, che ti fa bene». E mi passava un pezzo della sua bistecca.
Un pomeriggio, sul passo dello Stelvio, nevicava a dirotto, vedo un uomo accovacciato accanto alla sua auto che briga indaffarato per cambiare una gomma. Accosto e grido: «Bartali, ma che fai?».
«Eh, ho bucato».
«Lasciala lì, vieni con me. La mandiamo a prendere dopo!».
«Ma figurati! Per una gomma?!».
«Allora, aspetta, che ti aiuto».
«Ma no, ma che mi aiuti, ti bagni tutto! Ecco, ho già fatto!».
Aveva già 74 anni, ma di certo non era una tormenta di neve che poteva fermarlo. Quel naso triste come una salita quegli occhi allegri da italiano in gita… Così lo canta Paolo Conte. Gino Bartali ha vinto tre Giri d’Italia e due Tour de France passando attraverso la Seconda guerra mondiale. Non si è corso tra il ’41 e il ’45 ma Gino non ha mai smesso di allenarsi e nel ’46 si fece trovare pronto e vinse di nuovo il Giro. Nel 1948 vinse il Tour, a 34 anni. Fu dichiarato “Giusto tra le nazioni”, termine assegnato per indicare i non ebrei che durante la guerra hanno aiutato a salvare gli ebrei dallo sterminio nazista. È stato un eroe. E Paolo Conte l’ha ringraziato esprimendo l’allegria dirompente di quell’uomo straordinario che fu.
Mi è piaciuto così tanto assistere al Giro d’Italia, anche grazie a Bartali, che l’anno successivo ho chiesto di seguire anche il Tour. Era l’anno in cui vinse Greg LeMond, credo, ma a me incuriosiva un altro ciclista, un gregario che come ciclista cominciava a non essere più tanto giovane, eppure aveva qualcosa di speciale. “Tirava” con dedizione il suo capitano Pedro Delgado, un uomo allora molto popolare in Spagna, simpatico, allegro, sempre contornato da giovani donne bellissime e molto amato dai giornalisti che invece snobbavano il suo subalterno, soprattutto gli spagnoli, non ultimo perché era basco. E questo gregario taciturno e schivo pedalava come il vento e spesso era costretto a frenare contro natura per aspettare il suo capitano. Una mattina, prima della partenza della tappa, lo avvicino. «Ti devo fare una domanda. Perché fai il gregario?». Ricordo che mi guardò come fossi un imbecille per poi rispondermi pacato: «Be’, perché è il mio lavoro». Tutte le mattine ritornavo da lui, non potevo farne a meno, e gli rifacevo sempre la stessa domanda per ricevere la stessa risposta, fino a quando, verso la fine del Tour, non ne poté più e mi disse in malo modo di lasciarlo in pace. Naturalmente lo feci ma continuai a domandarmelo. L’anno successivo lui, Miguel Indurain, corse da titolare e vinse per la prima volta a 27 anni, e non si fermò più conquistando cinque titoli consecutivi. L’unico nella storia. Chissà quanto avrebbe potuto vincere se avesse cominciato prima. Miguel Indurain fu un fenomeno dello sport. Non l’ho mai più incontrato ma ho pensato spesso a lui e forse avevo così tanto bisogno di spronarlo a fare il salto di qualità perché in verità stavo parlando a me stesso più che a lui. Lo sport cominciava ad andarmi stretto. Non mi divertivo più così tanto e anch’io, che avevo da poco varcato la soglia dei miei 30 anni, avevo bisogno di non essere più un gregario. —