La Stampa, 18 aprile 2023
Non dimenticare i fratelli Mattei
Detta in modo ruvidamente sintetico: è possibile riconciliarsi in nome dei fratelli Mattei, ma è più difficile farlo in nome dei fratelli Cervi. Le parole pronunciate da Giorgia Meloni in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Virgilio (ventidue anni) e di Stefano (otto anni) Mattei, sono, per una volta (e non so se ce ne sarà una seconda), condivisibili. Tanto più se accostate al gesto della sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti che, a Milano, ha reso omaggio alla memoria di Lorenzo “Iaio” Iannucci e Fausto Tinelli.
Come si sa, nel primo caso due morti di destra, nel secondo due di sinistra. E già queste etichette suonano oggi atrocemente infami se solo si pensa alla giovane età delle vittime e, in particolare, alla natura acerba di una di esse. Giorgia Meloni ha detto: «Erano gli anni nei quali l’avversario politico era un nemico da abbattere, erano gli anni della delegittimazione reciproca». Il movente era «l’odio cieco e totale nei confronti dell’avversario politico. Un odio allo stato puro che stava divorando la mente e il cuore di molti».
Quello che si può fare oggi è «tenere viva la memoria di quanto accaduto, per evitare il pericolo di ricadute». Tutto questo rappresenta un passo avanti, anche se non si tratta di una novità assoluta: da entrambe le parti – da coloro che furono di estrema destra e da coloro che furono di estrema sinistra – il ripudio di quella concezione bellica della lotta politica è un’acquisizione ormai consolidata. E, l’intangibilità della vita umana come limite invalicabile nel conflitto, anche il più aspro, è un valore che la politica attuale ha fatto suo da tempo, pressoché all’unanimità.
Tuttavia, da quelle parole condivisibili, la premier trae una conclusione inaccettabile: la condanna incondizionata di quegli atti di terrorismo e il tributo verso le vittime del campo opposto, a suo avviso, dovrebbero portare a «una piena e vera pacificazione nazionale». Le cose non stanno affatto così.
Quella che viene definita «pacificazione» – se mai fosse possibile, e ne dubito – non dovrebbe rimandare agli anni ‘70 del secolo scorso, bensì alla Resistenza contro il nazi – fascismo e alla guerra di Liberazione: e alla profonda frattura che quegli eventi determinarono all’interno della società italiana. È quella che Claudio Pavone, partigiano e grande storico, definì una «guerra civile».
Cinquant’anni fa in Italia, accadde qualcosa di molto diverso: oltre a un esteso movimento di massa e alle più importanti riforme sociali mai realizzate, vi fu una lunga fase di lotta politica, anche violenta, una “guerriglia a bassa intensità”, che vedeva forze di estrema sinistra e forze di estrema destra battersi contro lo Stato, considerato a vario titolo responsabile di iniquità e stragi; e che, al contempo, vedeva quelle stesse forze battersi le une contro le altre. Per quanto riguarda quest’ultima dimensione dello scontro, valgono le parole di Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi» e ancora: «gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio». È in quello scenario che maturano gli omicidi di Virgilio e Stefano Mattei e di Lorenzo “Iaio” Iannucci e Fausto Tinelli e di molti altri ancora.
Eppure, gli anni ‘70 non furono nulla di paragonabile al periodo tra il ‘43 e il ‘45. Nonostante le tantissime vittime e le numerose stragi, la guerra civile di quel decennio fu solo “simulata": non lacerò il Paese, non frantumò l’unità nazionale, non provocò una crisi di sistema. Oltre a non produrre, va da sé, alcun cambio di regime. Fu una fase di lutti, ma che – alla resa dei conti – finì con il coinvolgere solo una parte modesta degli italiani e segmenti delle giovani generazioni. Il paradosso tragico fu esattamente questo: una guerra civile solo simulata che pure causò enormi sofferenze e centinaia di vittime e che portò in carcere, per periodi più o meno lunghi, centinaia e centinaia di militanti. Oggi, dopo mezzo secolo, quella stagione può considerarsi superata, anche se per molti di quegli omicidi, tra i quali quello di Valerio Verbano e quello di Paolo di Nella, non c’è stata alcuna soluzione giudiziaria. Oggi l’omicidio politico non sembra più rientrare in alcun modo tra le forme di lotta delle diverse componenti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra e di quel che ne rimane. Ma, appunto, il tempo trascorso, il radicale cambiamento dello scenario politico, la diversa natura dei movimenti collettivi e il reciproco riconoscimento degli avversari, anche dei più ostili tra loro, consentono di ritenere conclusi quella storia crudele e quel lungo “fratricidio” generazionale.
Non altrettanto si può dire di quella autentica guerra civile che fu combattuta in Italia nel corso della seconda guerra mondiale. E il motivo, giova ripeterlo, è ancora l’ambiguità della destra rispetto al giudizio sul regime fascista e sul nesso inscindibile tra antifascismo e Costituzione repubblicana, come dimostrato anche dalle più recenti dichiarazioni di Giorgia Meloni e di Ignazio La Russa. E così torniamo alla storia dei fratelli Cervi: questi vennero trucidati su mandato e per mano di fascisti. Di fascisti italiani. Ed è un simile incontrovertibile dato storico a esigere parole più limpide e inequivocabili di quelle sinora pronunciate. Ovvero una definizione del fascismo non come una fase storica tra le altre, appena “macchiata” dalle leggi razziali e dall’entrata in guerra, bensì come un regime dittatoriale e liberticida. Il che condanna quanti ne furono parte o gli furono fedeli non al semplice ruolo di sconfitti, da onorare perché «si battevano per le proprie idee», ma quello di corresponsabili di un’immane tragedia nazionale. E, ancora, si impone un giudizio inappellabile sulla Repubblica di Salò e sulle origini del Movimento Sociale Italiano (e su quella “fiamma tricolore"). Ciò richiede una cesura netta e inevitabilmente dolorosa, non solo con la propria storia individuale e collettiva, ma anche con i propri fantasmi, le proprie mitologie e le proprie genealogie. È solo così, attraverso questo percorso severo e faticoso, che si potrà parlare seriamente di pacificazione. E che la memoria del passato non si ridurrà né a una posta in gioco da contendersi né a una retorica che suona fessa come una moneta falsa. —