la Repubblica, 18 aprile 2023
Chiude il Centro Sakharov
MOSCA – La vita in Russia assomiglia sempre più a un eterno funerale. Ogni giorno si dice addio a qualcuno o a qualcosa. Per l’ultimo commiato c’è quel che resta della sparuta e perseguitata opposizione eintelligentsija russa. La sopravvissuta al Gulag Elena Sannikova, gli avvocati Mikhail Birjukhov e Maria Eismont, l’oppositrice Julija Galjamina e i poeti Vadim Zhuk eMarina Borodinskaja. C’è anche Jan Rachinskij, il direttore di Memorial che lo scorso dicembre a Oslo ha ricevuto il Nobel per la pace a nome dell’organizzazione per i diritti umani. “Nemici del popolo” con la consapevolezza e il peso dei reduci. Tutti riuniti per salutare le mura grezze con i mattoncini a vista del Centro Sakharov che per quasi trent’anni sono state una rara isola di libertà per la dissidenza moscovita. Con la mostra dedicata al centenario della nascita di Elena Bonner, moglie e compagna di lotta del fisico Nobel per la pace a cui intitolò il Centro nel 1996, si chiude anche la storica sede al numero 56 di ulitsa Zemljanoj Val. C’è in questo un simbolismo tragico. Il tempo sembra marciare all’incontrario.
Nella Russia di Vladimir Putin, l’epurazione è uno sfratto. Lo scorso gennaio le autorità moscovite hanno chiesto al Centro Sakharov di sloggiare dai locali che gli aveva messo a disposizione per oltre un quarto di secolo. Il pretesto è che nel 2014 il Centro è stato etichettato come “agente straniero”, marchio che, in base a recenti emendamenti, vieta la possibilità di ricevere sostegno statale. Formalmente non cessa di esistere, perde solo la sua storica e iconica sede affacciata sul fiume Jauza, ma è in corso un’indagine del ministero della Giustizia che molto probabilmente ne decreterà la fine a tutti gli effetti. Lo sgombero arriva al culmine di una repressione del dissenso che, dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, non risparmia più nessun giornalista indipendente, attivista, oppositore o ong. L’ong premio Nobel Memorial è stata “liquidata” un anno fa e la più antica organizzazione per i diritti umani del Paese, il Gruppo Helsinki di Mosca, è stata chiusa per ordine del tribunale a gennaio. Entrambe erano state cofondate da Sakharov. «La repressione aumenta. Questa non era una casa soltanto per noi, ma un’isola di libertà per tante organizzazioni civiche. Non c’è dubbio che lo sgombero sia un’ennesima linea rossa superata. Le autorità riescono a portare avanti la loro guerra ingiusta soltanto monopolizzando i mass media, mobilitando la società e privandola di ogni opportunità di esprimersi liberamente», commenta aRepubblica Vjacheslav Bakhmin, veterano attivista per i diritti umani e presidente del Centro. Assicura che il lavoro della “Commissione per la conservazione del patrimonio di Sakharov” non si fermerà e proseguirà online. «Ci hanno tolto soldi e risorse. Ci hanno tolto la sede, ma nonpossono toglierci la gente. Continueremo a lavorare anche se giuridicamente cesseremo di esistere». Chiunque si avvicendi davanti al microfono di questa serata conclusiva, fa la stessa promessa anche se qualcuno fatica a trattenere le lacrime. Lo ripetono anche a noi. «Lo spazio per il dibattito diventa sempre più limitato. La tendenza è evidente: togliere di mezzo tutte le organizzazioni indipendenti. Neppure il regime sovietico, ben più potente di quello attuale, ci riuscì, perciò sono convinto che i tentativi odierni falliranno», ci dice il Nobel Rachinskij. «Lutto e speranza oggi vanno a braccetto, ma a giudicare dalla gente accorsa l’attività del Centro continuerà», gli fa eco Birjukhov.
La sala in effetti è gremita di visitatori venuti a salutare l’istituzione soprannominata con un gioco di parole sakharnitsa, “zuccheriera”. L’atmosfera è quella mesta di una cerimonia funebre. L’ex prigioniera politica Sannikova legge una poesia del poeta ucraino e dissidente sovietico Vasyl Stus. Si suona e si canta come si faceva una volta, ma sussurrando come si sussurra un requiem. Per esorcizzare il dolore. Non c’è nulla da festeggiare in questa domenica di Pasqua che volge al termine in un Paese che non vuole più ricordare. Oltre a custodire il vasto archivio di Sakharov, il Centro organizzava mostre, dibattiti, seminari, proiezioni e concerti. Qui si tenne la camera ardente per tanti dissidenti da Valeria Novodvorskakja a Boris Nemtsov. Qui si riunivano i liberi pensatori non indifferenti alle sorti del Paese.
Il volto di Elena Bonner veglia con la sua espressione dolce da una gigantografia in bianco e nero, mentre la curatrice della mostra Natalia Samover accompagna un gruppetto tra i drappi che pendono dal tetto. Segnano le tappe della storia di Bonner: il padre condannato a morte e la madre ai lavori forzati, la medicina come vocazione fino all’incontro con Andrej Sakharov, il fisico nucleare tra i creatori della bomba all’idrogeno che lottò per il disarmo. In alcune teche, taccuini, la macchina per scrivere, il fax che inviò alla Duma contro la guerra in Cecenia. I cimeli di una «vita tipica, tragica e meravigliosa», come disse ella stessa e recita il titolo della mostra. «La lezione di Sakharov e Bonner resta importante, ma il motto “pace, progresso e diritti umani” è stato apparentemente dimenticato. Nessuno vuole più ascoltarlo. Per pigrizia o quieto vivere», confessa Bakhmin. Ma resta ottimista. «Non tutto è perduto. Se nel ’68 a protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia uscirono in piazza in sette, adesso la protesta è più vasta. È impossibile distruggere le idee di Sakharov chiudendo un edificio. Sono radicate nella gente e la gente non svanisce. Il nostro Paese sta andando verso un vicolo cieco, ma prima o poi troveremo la via d’uscita».