Corriere della Sera, 18 aprile 2023
Gianmarco Tognazzi ricorda suo padre Ugo
Gianmarco, figlio di Ugo Tognazzi: «Per goliardia comprò l’isolotto Fon Kul. Le gag di Amici miei nate durante le bevute»
Gianmarco Tognazzi con suo padre Ugo
Quando è stata la prima volta che ha capito di avere un padre famoso?
«Probabilmente il giorno dopo che sono nato – sorride Gianmarco Tognazzi —. A Villa Stuart, la clinica romana dove mia madre (Franca Bettoja, ndr) aveva appena partorito, arrivò una valanga di fotografi. Stazionavano sotto la finestra della camera urlando a mio padre: “Faccelo vedere! Faccelo vedere!”. E lui, stanco delle urla, scende giù con un fagottino in braccio: ma non ero io, dentro c’era uno scimpanzé di peluche... Dunque, in quella che avrebbe dovuto essere la mia prima foto con lui, c’era un pupazzo».
Che padre e che uomo era?
«Pur essendo più figlio dei suoi figli, ogni tanto provava a fare il padre, ma non era severo... ovviamente ci ammoniva dicendo quello che “non si deve fare”. Se però si metteva davanti allo specchio, poteva dire a sé stesso: io ho fatto peggio. Come uomo, per definirlo ho usato il termine Ugoismo, una parola che potrebbe apparire egoistica, invece riguardo a lui significa altruismo».
In cosa consisteva il suo altruismo?
«Godeva nel vedere gli altri beneficiare di ciò che era in grado di offrire. Si definiva “un povero che mantiene una famiglia di ricchi”: tutto quello che faceva per sé stesso, lo metteva a servizio del prossimo. I suoi apparenti egoismi, li condivideva con parenti e amici, per farli vivere bene. Per esempio, avere una casa grande gli serviva per ospitare tante persone».
Stiamo parlando di un santo?
«No, di un uomo onesto con sé e con chi gli era vicino. E soprattutto un irregolare in senso trasversale, cioè anticonformista. Non faceva le cose per finire sui giornali, semmai viveva la quotidianità, privata e artistica, fregandosene delle regole fissate».
Un attore di successo che non manifestava il suo successo?
«Proprio così, il contrario di colui che si vanta. Addirittura, quando conosceva una persona, per prima cosa raccontava una propria gaffe, una figura di m... che gli era capitata in una certa occasione. Un racconto divertente, un aneddoto comico per fare entrare quella nuova conoscenza in rapporto con l’uomo fallibile, non con il divo cinematografico. Si metteva sempre a nudo, un vero fuorilegge».
Anche perché ha generato quattro figli con tre donne: Ricky con l’inglese Pat O’Hara, Thomas con la norvegese Margarete Robsahm, lei, Gianmarco, e Maria Sole, con l’italiana Franca Bettoja...
«E lo ha fatto quando in Italia vigeva un bigottismo assoluto. Però, anche in questo caso, senza mai vantarsi, senza dire quanto sono figo e in controtendenza».
Gestire una compagna, Pat, una ex moglie, Margarete, e una moglie, Franca, più quattro figli non deve essere stato tanto facile...
«Le madri dei suoi figli sono diventate amiche, così noi fratelli. Una famiglia allargata, dove ci si scambiava e ci si scambia tutto, guidata da un uomo che non si atteggiava a patriarca: Ugo era uno spirito libero».
È vero che, durante la relazione con Margarete, acquistò un isolotto norvegese, perché si chiamava...
«Sì! Si chiamava Fon Kul... ed è inutile spiegare come suona questo nome in italiano e il motivo per cui si divertì a comprarlo. Intendiamoci, era un pezzo di terra infilato in un fiordo, non un’isola ai Caraibi».
Insomma, un personaggio goliardico, declinato nei modi più disparati...
«E le sue goliardate, a volte, gli sono costate parecchio. Quella volta che con Raimondo Vianello, nel varietà televisivo Un due tre, fecero la parodia del Presidente Gronchi che cade dalla sedia, nel palco reale, alla prima Scaligera, il programma venne subito dopo cancellato dal palinsesto Rai. E poi lo scherzo sulla rivista Il Male, con il suo finto arresto, accusato di essere a capo delle Brigate Rosse: un gioco che rivendicò come “diritto alla cazzata”...».
Come nasce la celebre «supercazzola» del film «Amici miei»?
«Non è un’invenzione solo di Ugo, ma del gruppo di attori-amici con Mario Monicelli. Mia madre mi racconta che, mentre preparavano il film, si vedevano la sera e dopo cena, quando erano completamente brilli, decidevano le parole inventate, storpiate proprio dall’ubriacatura. E il vino era quello della Tognazza».
Perché il nome al femminile?
«Perché la tenuta è femminile, azienda agricola è femminile, casa vinicola è femminile, l’etichetta è femminile... quindi ecco la Tognazza a Velletri, una factory dove siamo cresciuti, aperta agli amici considerati dei familiari».
E sarete cresciuti anche sui set.
«Certo, era un modo per recuperare le sue assenze paterne. Siccome era poco presente in casa, ci portava sul suo terreno di gioco, era un modo di condividere le sue emozioni attoriali con i figli e, forse, più che per noi, lo faceva egoisticamente per lui».
Con quale dei suoi colleghi ha stretto una più profonda amicizia, con chi si sentiva più affine?
«La cerchia dei cinque, ovvero Gassman, Manfredi, Sordi, Mastroianni e Tognazzi, rappresentava il monopolio del cinema italiano, che condizionava il mercato. Le sue affinità maggiori, con Vittorio e Marcello. E poi un rapporto particolare, davvero speciale con Luciano Salce, che per noi figli era uno zio».
Tutti voi figli, in un modo o nell’altro, avete seguito le sue orme: consigliati o sconsigliati da lui?
«Ci ha sempre lasciati liberi nelle nostre scelte. Io, per esempio, ho cominciato dietro e non davanti alla macchina da presa. Poi mi sono messo a studiare seriamente il mestiere d’attore e sono ripartito dal teatro. Avevo vent’anni e una volta venne a vedermi recitare all’Argot, una piccola sala romana: 40 posti a sedere e pochi soldi per la messinscena. Lo spettacolo, Crack, raccontava l’universo pugilistico in modo violento: nel primo atto, il palcoscenico diventava una palestra, nel secondo il ring... Al termine dello spettacolo, si alzò in piedi per applaudire: era in visibilio e tornò a rivederlo».
Lei ha mai pensato di scegliere un nome d’arte per evitare paragoni con lui?
«No, non sarebbe servito, perché tanto avrebbero detto: è il figlio di Tognazzi e si è cambiato nome per non far vedere che è raccomandato. Comunque il suo talento e la sua genialità non sono riproducibili».
Finora abbiamo parlato solo dei suoi pregi: un grosso difetto?
«Ne aveva tantissimi, però era il primo che, se ne combinava una, alzava la mano e candidamente ammetteva: ho fatto una cazzata. E non si poteva non fargli un applauso».
Se avesse potuto festeggiare i suoi 100 anni, cosa avrebbe organizzato?
«Non credo avesse nessuna voglia di arrivare a un’età tanto avanzata, già pativa i suoi 68 anni quando è morto, si sentiva vecchio: se la morte non fosse arrivata naturalmente, si sarebbe tolto dalle scatole in altro modo».
Cosa le manca di più di suo padre?
«Tutto, ma penso che la morte non esista, spero e credo in dimensioni differenti, nelle quali ci ritroveremo prima o poi. Mi piace immaginare che sia in tournée con i suoi amici. E per adesso ho riempito l’assenza ugoistica vivendo nella casa-museo di Velletri dedicata a lui... custodisco gelosamente l’unica poesia che mi ha dedicato, dove l’ultima frase dice: “Io sono destinato a fare bimbi adulti, io che non so crescere”».