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 2023  aprile 18 Martedì calendario

Il caso Murdoch, tra amori, rivalità e un processo

Un anno tempestoso, l’ultimo, per Rupert Murdoch: il divorzio da Jerry Hall (liquidata con una mail: «Abbiamo passato dei bei momenti insieme ma adesso ho altro da fare»), il fidanzamento con Ann Lesley Smith rotto dopo due settimane, la sua Fox News trascinata in tribunale dalla Dominion, un produttore di macchine per scrutini elettorali che chiede 1,6 miliardi di dollari di indennizzo per i danni arrecati alla sua reputazione e i contratti persi a causa delle calunnie (voto delle presidenziali 2020 truccato manipolando i sistemi informatici) delle quali si è fatta megafono la rete ultraconservatrice dell’editore venuto dall’Australia.
La famiglia è sempre più spaccata anche per colpa del patriarca: per molto tempo ha alimentato le rivalità tra i figli, convinto che il suo successore dovesse venir fuori da una feroce selezione darwiniana. James, ormai non più al timone dell’azienda di famiglia, esprime apertamente il suo sdegno per una linea editoriale che definisce un attentato alla democrazia e ha disertato la festa di compleanno del padre. Intanto suo fratello Lachlan, ora al timone di Fox Corp, la holding di controllo, lo accusa di raccontare agli autori di Succession discussioni accese, scontri, retroscena familiari che finiscono nella sceneggiatura del serial tv ispirato proprio ai Murdoch.
Le ammissioni
In questo clima avvelenato, gli avvocati del 92enne Murdoch, incalzati dai legali della Dominion che sono riusciti a scovare i relativi documenti, hanno dovuto ammettere che il fondatore di un impero editoriale esteso su tre continenti non ha in Fox News cariche solo onorifiche, come avevano sempre sostenuto davanti al giudice, ma è presidente esecutivo della società: così è registrato dal 2019 presso la Sec, l’authority che vigila sulle borse Usa.
La cosa ha fatto infuriare Eric Davies, il giudice che presiederà il processo che inizia oggi – dopo il rinvio di un giorno, in un estremo tentativo di trovare un accordo – in Delaware: durante l’istruttoria ha ascoltato ben 75 testimoni, compresi i Murdoch, ma non è andato a fondo con loro proprio perché non sembravano aver avuto un ruolo diretto nella vicenda. Ora Davies aprirà il processo chiamando alla sbarra Rupert, subito dopo un giurista che illustrerà i limiti del Primo emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce piena libertà di espressione. Poi toccherà a Lachlan.
Sarà un processo di sei settimane, spettacolare: oltre ai Murdoch verranno chiamati a testimoniare esponenti politici e avvocati di Trump che hanno costruito e diffuso la tesi della truffa elettronica e tutti i più popolari conduttori televisivi della destra, da Tucker Carlson a Sean Hannity, a Maria Bartiromo, che hanno ripreso e accreditato questa teoria cospirativa pur sapendo che non aveva fondamento, come hanno scritto loro stessi in email e messaggi che la Dominion ha recuperato e portato come prova.
Processo spettacolare ma anche anomalo. I giuristi sono sorpresi, casi simili vengono risolti quasi sempre con una transazione prima del processo: quando le prove sono schiaccianti è interesse degli imputati evitare la condanna. Nel caso Dominion, le prove contro Fox sono talmente solide che il giudice ha già sentenziato che la rete televisiva ha diffuso notizie false: il processo serve solo a far stabilire dai giurati se la Fox ha agito con «actual malice», cioè in malafede. Ma la chiave è proprio qui, perché per la legge americana chi pubblica il falso può essere condannato solo se si dimostra che lo ha fatto di proposito per danneggiare qualcuno. E provare la malafede della stampa è molto difficile.
Questo è il motivo per cui il processo Dominion v. Fox è considerato dai giuristi anche il più importante procedimento sulla libertà d’informazione del Ventunesimo secolo. La stessa stampa liberal è combattuta: da un lato vorrebbe veder stabilito che i loro rivali delle reti di estrema destra hanno consapevolmente avvelenato la democrazia americana. Dall’altra temono che, sotto il peso di prove schiaccianti, venga emessa una condanna destinata a diventare un precedente che potrà essere usato anche contro la stampa progressista.
La malafede
Di certo, comunque, i materiali per provare la malafede della Fox non mancano: dalle conversazioni nelle quali i conduttori delle trasmissioni riconoscevano l’infondatezza delle notizie sulle «elezioni rubate», alle testimonianze degli stessi Murdoch. Lachlan, disposto a diffondere le teorie cospirative di Trump per paura di veder crollare gli ascolti. E Rupert che chiede a Suzanne Scott, ad della sua rete, di far dichiarare dai conduttori che le elezioni sono finite e ha vinto Biden. Sentendosi rispondere: «In privato siamo tutti d’accordo su questo, ma dobbiamo stare attenti a non metterci contro i telespettatori». Durante l’istruttoria, Rupert ha riconosciuto di aver accettato questa tesi.
In fondo il processo Dominion, che sarà essenziale per la libertà d’informazione negli Usa, si riduce a questo: fino a che punto la libertà assoluta d’informare si estende a tesi cospirative, a informazioni false, addirittura a calunnie. Fino a che punto ragioni di business giustificano forzature o un travisamento consapevole della realtà. Una condanna della Fox sarebbe una mazzata per il principale megafono della destra che potrebbe veder messa in discussione la sua stessa esistenza. Ma la condanna potrebbe innescare denunce anche contro i media della sinistra.
L’assoluzione suonerebbe come una sorta di certificazione del diritto alla calunnia: anche questo uno scenario inquietante. Sentimenti contrastati che non sembrano toccare il giudice Davis: ha già certificato i falsi della Fox ed è furioso perché i suoi avvocati gli hanno mentito su Murdoch. E ha respinto con sarcasmo l’ultimo tentativo di evitare la convocazione di Rupert in tribunale a causa della fragile salute di un 92enne: «Annunciando il suo fidanzamento, non aveva detto che cominciava la sua seconda vita?».