il Giornale, 18 aprile 2023
Intervista a Don Wilson
In Città in fiamme (HarperCollins 2022), ovvero Providence, Rhode Island, Danny Ryan si trova invischiato in una guerra di Troia contemporanea, che vede contrapposti i clan mafiosi italiani e irlandesi (lui appartiene ai secondi). Alla fine del romanzo Danny, diventato il capo ma braccato dai rivali e dalla legge, fugge con il vecchio padre e il figlio piccolo: è Enea, in cammino verso Hollywood, Città di sogni (HarperCollins, pagg. 382, euro 22), secondo capitolo della nuova trilogia di Don Winslow. Dopo la monumentale trilogia sul traffico di droga fra Messico e Stati Uniti (Il potere del cane, Il cartello, Il confine), il re del crime si è rivolto all’epos. Nato a New York nel 1953, da anni vive «in un vecchio ranch a un’ora da San Diego», da dove risponde via zoom. Dopo l’Iliade, l’Eneide? «Sì, Danny è Enea. Un personaggio non principale nell’Iliade, ma che mi ha sempre attratto, perché è un fuggitivo». Si è ispirato all’epica per questa trilogia? «Sì. Verso i quarantanni mi sono reso conto di quanto fossi ignorante, davvero... Conoscevo Shakespeare abbastanza bene e la letteratura africana, ma non quella occidentale: così ho preso una di quelle liste di grandi libri e li ho letti tutti, per sette anni. I primi ovviamente sono stati l’Iliade, l’Odissea, le tragedie greche e l’Eneide». Scriveva già? «Sì. E le storie classiche mi ricordavano moltissimo sia il mio amato genere crime, sia i crimini della vita reale, che avevo conosciuto negli anni. Così ho pensato: posso scrivere romanzi crime che prendano in prestito trame e personaggi dei classici?» Nel Potere del cane i cattivi sono cattivi e basta. Qui Danny è un cattivo, ma è anche un eroe. «Sì. In quel caso ho scritto di situazioni reali: non c’è una singola cosa che quei personaggi abbiano fatto che, tragicamente, non sia accaduta nella vita reale. Qui è diverso: possiamo chiamare Enea eroe, ma alcune delle cose che fa non sono affatto buone, o eroiche; eppure continuiamo a stare dalla sua parte. E così è per Danny». Anche a Hollywood, dove arriva, crimine organizzato e industria del cinema vanno a braccetto. «Conosco il mondo del cinema e l’ho frequentato: è una simbiosi che esiste da sempre». È vero che, come già Le belve, questa nuova trilogia diventerà un film, con Austin Butler nel ruolo di Danny? «Sì, il protagonista di Elvis. Ne sono felice. Credo che sarà grandioso nel ruolo di Danny, gli ho parlato varie volte e ha capito il personaggio, ha voglia di entrare in quel mondo. Mi piace». Parteciperà alla sceneggiatura? «No, ci sono altri molto più bravi di me per quello. Io parlerò con Austin e con chi dirigerà il film e porterò gli attori nei luoghi della storia, in particolare in Rhode Island, che pochi conoscono, ed è un posto unico». Perché ha scelto proprio il Rhode Island? «Sono cresciuto lì, in una città di pescatori, e vivevo su una spiaggia, che è quella dove si apre e si chiude Città in fiamme. Del resto, l’Iliade si svolge per il 90 per cento su una spiaggia... Ora sono tornato a vivere lì con mia moglie per sei mesi l’anno». Quando se ne era andato? «A 17 anni. Volevo il mondo. Sono stato lontano per decenni, cercando di farmi una vita, ma sette anni fa sono tornato, per stare vicino a mia madre, e mi sono ri-innamorato del posto. E, quando ho riesumato il libro, l’ho ambientato lì». Riesumato quanto? «L’idea risale a 28 anni fa, ma lo iniziavo, poi smettevo, poi ricominciavo...». È vero che per la trilogia del Cartello ha impiegato vent’anni? «Ventisei. Però ci sono degli intervalli ampi fra un libro e l’altro: ogni volta giuravo che non sarei mai più ritornato a quel mondo... In questo caso, invece, fin dall’inizio sapevo di voler scrivere tre libri, corrispondenti ai tre volti distinti che Enea ha per me: quello della guerra di Troia, la fase errante e la costruzione dell’impero». Il terzo libro, Città in rovina? «L’ho già scritto, negli ultimi due anni. La seconda parte dell’Eneide è una battaglia per la costruzione dell’impero, ma questo non poteva funzionare per un romanzo crime, quindi dovevo capire come fare. Ma la risposta era ovvia: dove, negli Usa, puoi trovare un impero, se non a Las Vegas?». Danny diventa Gatsby? «Nel terzo libro sì. È un gangster che vuole essere un ex gangster, proprietario miliardario di casinò, che pensa di avere seppellito il passato... Io sono molto aperto a parlare di influenze». Per esempio? «Tolstoj. Quando dovevo scrivere Il cartello ho letto Guerra e pace, per capire come uno scrittore veramente grande, non uno come me, riuscisse a maneggiare tutti quei temi, quelle grandi storie che si svolgono lungo il corso di molti anni e, insieme, le piccole scene, i dettagli. Poi Middlemarch di George Eliot, che ha avuto una influenza enorme per me. E Shakespeare, ovviamente. Quando dovevo scrivere Il confine cercavo un modo cominciare e introdurre tutti quei personaggi, e mi è venuto in mente Enrico VI: un funerale, in cui tutti si ritrovano nello stesso posto... E mi ha risolto il problema». Come costruisce i dialoghi, che caratterizzano così tanto il suo stile? «La prima cosa, per me, è conoscere perfettamente i personaggi: non inizio mai a scrivere finché non li sento tutti, nella mia testa, che mi parlano. Poi serve ascoltare: noi scrittori parliamo troppo, invece bisogna ascoltare e ascoltare, fino a riuscire a replicare quello che si sente. E mi rileggo i dialoghi ad alta voce: è un modo per sentire quello che non funziona, come una nota stonata. Infine, anche se è noioso, li faccio e li rifaccio, fino a che trovo quello giusto... Ogni mattina cammino per 45 minuti e mi ripeto i dialoghi nella testa, li rifaccio, li rifinisco e, quando torno a casa, li riscrivo, finché sono esattamente come voglio che siano». Il crime è bistrattato? «Sì. Non come in passato ma, ancora oggi, sei un genere: romantico, noir, da spiaggia... Ma io non ho problemi a essere una lettura da spiaggia: sono felice se c’è la sabbia fra le pagine dei miei libri. E quella certa accondiscendenza nei confronti degli scrittori di crime serve a ricordarci le nostre origini. Il noir contemporaneo inizia dopo la Seconda guerra mondiale, ed è l’individuo contro il sistema». Siete dei combattenti? «Eh sì. E ammetto che un po’ mi piace... Senza i romanzi rosa e il crime non avremmo neanche più romanzi, perché l’editoria sarebbe fallita. Noi finanziamo i romanzi più letterariamente quotati, e mi diverte: è un po’ come, nella vita reale, chi pulisce le strade, rigira gli hamburger e insegna a scuola rende la vita possibile per tutti, anche per le classi alte». Il sogno americano esiste ancora? «Questa trilogia è molto sul sogno americano, sono anche piuttosto romantico sulle grandi strade americane... E io stesso ho vissuto questo sogno. Ora però è minacciato: sono preoccupato per il futuro della democrazia americana, mi sconcerta che si voglia chiudere questo sogno agli immigrati». Davvero Città in rovina è il suo ultimo libro? «Sì. Ho smesso di scrivere». Ci ripensi. «Grazie, ma credo di aver raccontato le storie che volevo raccontare. Non voglio pubblicare per pubblicare... Ci sono cose più urgenti in cui mi posso impegnare come scrittore, già dal 2015 sono molto attivo su twitter con dei video. Pensavo che, dopo le elezioni del 2020, la battaglia contro Trump fosse finita, ma i fatti del 6 gennaio hanno dimostrato che non è così». Che cos’è scrivere per lei? «Ora non scrivo più... Però volevo essere uno scrittore da quando avevo 16 anni, e creavo pessime opere teatrali: è sempre stata la mia passione e l’universo me lo ha permesso. Ho scritto ventitré romanzi, sono stato molto fortunato. Scrivere per me è stata, semplicemente, una vita bellissima. E, beh, sono abbastanza vecchio per sapere che mai dire mai ma, almeno fino alle elezioni del 2024, la mia decisione è ferma. E non sto dicendo che dopo tornerò...».