Corriere della Sera, 18 aprile 2023
Le vivandiere di Matteo Messina Denaro
Le vivandiere del boss. Tallone d’Achille, sgarbo ed errore del latitante Matteo Messina Denaro, che legandosi a donne di mafia ha mostrato tutta la sua fragilità, tradito la «famiglia» e in qualche modo favorito la sua cattura.
N on esiste boss latitante senza vivandiere, non esiste nessuna latitanza possibile senza assistenza. I boss, quando si nascondono, hanno necessità primarie che devono essere affrontate in modo completamente diverso rispetto a quando sono in libertà e in società. Liberi e in attività hanno squadre che girano intorno alle loro case e guardiaspalle. Più i familiari sono visibili, attivi in campagna elettorale e presenti negli affari pubblici, più il loro potere è celebrato. I loro movimenti sono sintomo della presenza del capo sul territorio, la visibilità mostra dominio e vuole comunicare sicurezza a chi si affida al loro potere.
Tutto cambia in latitanza. O, meglio, in una latitanza in cui si ha certezza d’essere ricercato: lo Stato è debole e squattrinato, non ricerca tutti i latitanti. Ebbene, quando si è nel mirino non deve esserci traccia di movimenti: i familiari rappresentano un pericolo, vengono pedinati, osservati, continuamente monitorati. Scegliere la figura giusta come vivandiere è molto, molto complicato: deve essere anonima e deve essere affidabile. Nessun trascorso nell’organizzazione, nessun reato. Ancor prima del rischio di essere scoperti dalla catturandi, c’è il rischio di essere venduti ai nemici. Quindi la persona prescelta deve essere inavvicinabile dai rivali, e non perché incorruttibile o perché irreprensibile (studiare le mafie ti porta a una consapevolezza che l’umanità non è kantianamente un legno storto ma una radice marcia: tutti sono avvicinabili, tutti sono corruttibili) ma semplicemente perché non la identificano e quindi non possono comprarla o minacciarla. Da sempre, il ruolo del vivandiere o della vivandiera è quindi il muscolo cardiaco che permette la latitanza di un capo. La regola è sempre la stessa: per prendere un latitante bisogna identificare chi gli porta il cibo, chi gli consegna i panni, chi lo sposta quando deve muoversi. Chi insomma permette al latitante di svolgere le sue attività vitali che sono appunto mangiare, bere, vestirsi comunicare, e in alcuni casi, fare sesso. Non è raro, infatti, che quando si tratta di vivandiere i capi abbiano poi iniziato relazioni con loro spesso mettendo a rischio il funzionamento del sistema.
La moglie dell’ex killer
Succede anche a Messina Denaro. Il boss sceglie come vivandiera Laura Bonafede, moglie di un suo killer, Salvatore Gentile, e figlia di un uomo d’onore responsabile di mandamento, Leonardo Bonafede. Laura possiede un pedigree mafioso perfetto, avrebbe dovuto per questo motivo essere scartata come vivandiera perché non rispetta il codice dell’anonimato, dell’assenza di legami con uomini d’onore: per gli inquirenti sarebbe dovuto essere facile monitorare tutte le famiglie di Cosa Nostra della zona di Castelvetrano nei decenni di latitanza di Messina Denaro, per scovare chi lo aiutava. Sembra scontato ma non lo è. Messina Denaro non è come gli altri latitanti. Gli altri latitanti si nascondevano e si nascondono per continuare ad essere ciò che sono, Messina Denaro aveva un’altra identità non solo per provare a sottrarsi a quella parte di Stato che lo cercava per catturarlo ma anche per scomparire letteralmente con l’organizzazione e avere con essa solo sporadici contatti. Quindi per chi lo cercava la sfida non era dove fosse Messina Denaro ma chi fosse Messina Denaro. Laura Bonafede lo assiste in totale tranquillità e nel tempo tra i due nasce una relazione. Questa è una debolezza: legarsi alla propria vivandiera perché la sua frequentazione smette di essere legata alla necessità e inizia a diventare condizione di volontà. Leggendo la documentazione negli atti giudiziari, le lettere che si scrivono mostrano un sentimento corrisposto e continuato: «Penso che... ci apparteniamo, nel bene o nel male ci apparteniamo e questo è un dato di fatto» e ancora: «Mi manca tutto, anche guardare un film assieme».
La nuova storia
Accade poi che Messina Denaro deve cambiare luoghi, avvertito della pressione delle indagini e allora va a vivere nella casa del cugino di Laura, Emanuele Bonafede. Ma lui è sposato e quindi la convivenza sarà anche con la moglie Lorena Lanceri. Laura è infastidita dal tempo che il boss trascorrerà con la nuova vivandiera e un giorno vede l’Alfa Romeo con cui Messina Denaro si muoveva proprio sotto casa della coppia: «Stranamente non mi sono arrabbiata (per camuffare scrive di sé al maschile, qui riporto al femminile), non sono andata su tutte le furie come di solito mi succede. Mi ha dato parecchio fastidio, questo non lo posso negare. Mi ha dato fastidio non sapere cosa stessi facendo in quel momento, non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se... se... se... potrei dire mille se...». E Laura non stava delirando, effettivamente anche con la seconda vivandiera era nata una relazione, come tracciato in una lettera che Lorena scrive al boss: «Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare, facendomi un regalo in gran stile. Quel regalo sei tu... Penso che qualsiasi donna nell’averti accanto si senta speciale ma soprattutto tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini». Mentre migliaia di poliziotti lo cercano e milioni di euro vengono investiti per catturarlo, una sola persona riesce a monitorare ogni suo movimento: è Laura Bonafede, la vivandiera la cui gelosia è così forte che incolla i suoi occhi su «Margot» (nome in codice dell’Alfa con cui si muove in paese Messina Denaro) per capire come si sta muovendo il suo amato. E il boss, che riesce a muoversi libero mentre lo ricercano le squadre d’élite dei carabinieri, teme invece solo che gli occhi di Laura lo becchino. Infatti quando deve utilizzare l’altra vivandiera Lorena (nome in codice «Tramite») per muoversi è proprio a Laura che chiede il permesso. «Devo dirti allora che me lo hai chiesto tu se potevi fare un giro con Tramite? – aggiunge —. Lasciamo stare il telo macchiato che poteva essere un’illazione. Ma il salire in auto nella piccola stradina. Te lo ripeto: io ti conosco. È vero, sai recitare, ma capisco quanto sei coinvolto quando parli di qualcuno». Il telo a cui fa riferimento probabilmente è un telo mare macchiato trovato nell’auto del boss che per Laura era prova di un rapporto amoroso consumato tra i due. Probabilmente Messina Denaro riuscì a convincerla che erano supposizioni fantasiose ma Laura va oltre, stigmatizza il fatto di averla incontrata dandosi appuntamento in una stradina, tutti segnali per lei di un coinvolgimento amoroso reale.
Insieme nel «tugurio»
Per anni Laura è stata la sua vivandiera e non sopporta ora il cambio. Avevano vissuto insieme nel «tugurio», così viene chiamato l’appartamento: «Stavamo bene in quel posto: sì, ero felice di trascorrere quel tempo insieme, penso che lo sapevi che era così». La crisi che nasce con le vivandiere indebolisce il boss, esattamente come nella fenomenologia di tutte le relazioni d’amore, l’assenza si tramuta in rancore, la cura in rabbia, legarsi sentimentalmente alla vivandiera significa sottoporre il rapporto alle regole della passione: ossia transitorie, lunatiche, emotive quindi rancorose, irrazionali, ossessive, tossiche. I sentimenti sono volubili e in latitanza l’instabilità lascia pericolose brecce. Questa crisi tra le due vivandiere probabilmente spinge Messina Denaro a farsi gestire da uomini, la sua identità ultima è quella del fratello di Emanuele Bonafede, Andrea Bonafede, nella cui vita decide di nascondersi mentre prova a curarsi dal cancro ma non servirà, qualcuno lo vende, qualcuno non lo protegge più e i carabinieri finalmente capiscono non dove si trova, tutti l’hanno sempre saputo, ma chi era Messina Denaro.
Il boss ha violato uno dei pilastri del codice d’onore di Cosa nostra che impedisce di poter avere relazioni con le donne d’onore, ossia con le mogli di uomini d’onore. Messina Denaro ha iniziato ad aprire varchi per la sua cattura nel momento in cui ha iniziato a violare le regole su cui si fonda l’edificio delle organizzazioni criminali italiane: non ragionare in altro modo che razionalmente e spietatamente. In sintesi, la filosofia mafiosa è chiara e tracciabile in queste proposizioni: nascere è una sventura, amare è una stupidità, provare emozioni è una debolezza. Il potere è l’unico scopo così da poter scegliere in che posto stare tra le uniche due possibilità a disposizione per chi vive in questo mondo: fottere o essere fottuto.