Il Messaggero, 18 aprile 2023
Lo studio sull’anoressia: «Non solo psicologica»
Se l’anoressia nervosa sia legata a un disturbo del comportamento, e sia quindi una patologia di tipo psichiatrico, o se invece entrano in campo anche altri fattori di tipo biologico, è un rebus che gli scienziati provano a risolvere da tempo. Senza però arrivare a conclusioni univoche. Ecco perché i risultati di uno studio condotto dagli scienziati dell’Università di Copenaghen e pubblicato su Nature Microbiology potrebbe confermare un’ipotesi che si fa largo da qualche tempo: a causare l’anoressia nervosa sarebbe un’alterazione del cosiddetto microbiota intestinale, ossia l’insieme dei microbi e batteri presenti nell’intestino. Questo vorrebbe dire che l’anoressia è una malattia che si può trasmettere da madre a figlia durante la gravidanza.I ricercatori hanno infatti notato che tra il microbiota di 77 ragazze e giovani donne danesi affette da anoressia nervosa e quello di 70 coetanee sane coinvolte nello studio c’è molta differenza: le pazienti anoressiche avevano un microbiota intestinale con una maggiore capacità di influenzare l’umore oltre a concentrazioni più elevate di molecole che inducono sazietà rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, le pazienti con anoressia presentavano una composizione intestinale alterata e un’interazione disturbata tra virus e batteri intestinali.LE IPOTESILa pista seguita dagli scienziati danesi, in realtà, non è nuova. «Ci sono già numerosi studi in letteratura degli ultimi 4-5 anni che dimostrano che il microbiota intestinale dei pazienti anoressici è diverso da quello dei loro coetanei non anoressici», spiega Antonio Gasbarrini, preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica di Roma e direttore del Centro Malattie dell’Apparato Digerente della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli. Finora non era chiaro però se questa differenza era causa o conseguenza dell’anoressia. «Questo studio dimostra che le donne con anoressia nervosa hanno un microbiota diverso da quelle con equilibro alimentare precisa Gasbarrini -. Il dato importante è che il microbiota delle donne anoressiche ha una maggiore capacità di degradare una serie di messaggeri chimici che vanno a condizionare il comportamento del cervello e l’umore delle persone. Potrebbe essere anche una conseguenza del disturbo alimentare, fatto sta che nel sangue delle donne anoressiche ci sono metaboliti prodotti dal microbiota intestinale che danno sazietà».E per gli scienziati non è un’osservazione di poco conto. «La novità è che il microbiota delle donne anoressiche trapiantato nei topolini prosegue l’esperto del Gemelli – fa sì che anche loro mangiano meno, hanno meno fame, aumentano meno di peso, hanno disturbi del comportamento. Il che vuol dire che il fenotipo dell’anoressia è trasmissibile. Su questa base ci sarebbe la plausibilità per fare uno studio al contrario: trapiantare nelle anoressiche il microbiota di persone in equilibrio alimentare per vedere se possono guarire da questa malattia». In sostanza, se gli studi successivi lo confermano, il rebus potrebbe essere risolto: l’anoressia, in sostanza, non è solo una malattia neuropsichiatrica, ma potrebbe essere una patologia dove è alterato l’asse intestino-cervello. Quindi, si potrebbero avere ulteriori armi per aiutare le donne anoressiche a guarire.LA DIFFUSIONE«Il fenomeno purtroppo è in crescita – precisa Laura Di Renzo, direttore della scuola di specializzazione in Scienza dell’alimentazione dell’Università Tor Vergata di Roma e consulente del centro sui disturbi della nutrizione e dell’alimentazione del Policlinico universitario – L’anoressia nervosa prima la identificavamo solo nei pazienti di sesso femminile, ora invece si osserva indipendentemente dal genere. Purtroppo, si è abbassata anche l’età dei soggetti che ne soffrono e viene diagnosticata anche nell’età più adulta, non solo nella fase adolescenziale».Inutile dire che il numero delle diagnosi è aumentato dopo la pandemia. «Per arrivare alla guarigione – rimarca Di Renzo – il risultato dipende dalla volontà del paziente di intraprendere un percorso di cura e quindi dalla partecipazione alle scelte. Ma non bisogna perdere tempo: ai primi campanelli di allarme, è bene rivolgersi ai centri specialistici. Purtroppo, però, ancora oggi in alcuni casi la famiglia non si accorge dei segnali del malessere e i pazienti arrivano da noi molto tardi».