La Stampa, 17 aprile 2023
Un diario onirico affidato ad un algoritmo
Annoto i miei incubi da sempre: sono la stazione di partenza della mia scrittura e una tappa obbligata del rapporto con me stessa. Non sono certo l’unica: la trascrizione dei sogni è uno dei più antichi generi letterari. È dell’Ottocento la prima meticolosa raccolta onirica dell’inglese Anna Kingsford, un’incallita animalista (sarà una coincidenza? O chi presta attenzione al linguaggio sottile dei sogni è anche amante del regno animale?). Il primo incubo mai trascritto, però, risale già al terzo millennio a.C., e si trova nel poema sumero La discesa di Inanna negli Inferi, il racconto di una discesa all’inferno che spoglia Inanna di un abito alla volta fino a lasciarla nuda al cospetto della sorella mostruosa Ereshkigal. Nel bel mezzo di questa impresa che di per sé somiglia già a un sogno (il tema della nudità/insicurezza ha fatto prima o poi capolino nella fase Rem di chiunque), ecco un incubo in cui i demoni dell’Oltretomba inseguono Dumuzi e infine riescono a catturarlo. Segue l’interpretazione della sorella, vera e propria interprete di sogni professionista: con algido distacco da vera e propria psicoanalista, conferma che il sogno nasconde presentimenti di morte. Infine un’illustrazione: una serie di sigilli che rappresentano i motivi del sogno. Insomma, insieme al primo sogno trascritto della Storia, nasce anche la sua trascrizione pittorica, come se la potenza travolgente del sogno richiedesse di essere espressa in più linguaggi.
Non a caso la poesia confessionale, uno degli exploit letterari più importanti del Novecento, nasce proprio dallo straripamento in letteratura dei simboli onirici elaborati in analisi. La stessa parola “incubo” rimanda, prima che a un contenuto filosofico, a una precisa collocazione spaziale: la postura dello spirito malefico che sovrasta il dormiente, opprimendolo. È una figura esploratissima pittoricamente (in salotto ho uno dei miei quadri ottocenteschi preferiti, Una giovane donna turbata e assopita con un demone seduto sul suo petto, simbolo del suo incubo di J.P. Simon), e persino le splendide caverne di Lascaux e Chauvet pare che possano essere considerate le prime illustrazioni di sogni, ben prima che la letteratura prendesse il sopravvento sullo studio del mondo onirico.
Insomma, una sera, mentre tornando a casa passavo davanti alla statua di Freud, ho immaginato una versione contemporanea di diario onirico: una collaborazione artistica tra me, sognante, e l’algoritmo di un’intelligenza artificiale, che ricevendo il mio comando illustrerebbe i miei sogni. Insomma, al posto del dio Asclepio, che si pensava mandasse agli antichi romani le immagini dei sogni con funzione prescrittiva, una macchina più prosaica e soprattutto più controllabile di un’entità trascendente: l’app midjorney.
Quello che mi intrigava non era infatti l’aspetto visivo in sé (avrei potuto disegnarli e basta) bensì esplorare il filo simil-mistico che lega l’inconscio individuale (in questo caso il mio) a una sorta di inconscio collettivo, nel senso di impersonale e auto-generativo (archetipico?). Sarebbe stato uno studio, quindi, anche della soglia tra controllo dell’immagine (non solo contenuto ma anche luce, obbiettivo, diaframma) e generazione automatica. Così ho creato un account su Midjourney e poi un account Instagram per condividere, come si addice alla nostra era di iper-esposizione del sé, le immagini che creavo (creavamo). L’ho chiamato “The_dream_and_the_underworld”, come il viaggio infero di Inanna ma soprattutto come il libro omonimo di Hillman, grande studioso della vita onirica.
Guardando la griglia delle foto che aggiorno a ogni risveglio e mi sorgono in mente mille quesiti, a cui forse solo il tempo mi permetterà di rispondere. Il tempo, appunto: cos’è un’immagine artistica senza il tempo dell’elaborazione esperienziale, e poi della creazione? Poi mi chiedo dove si potrebbe collocare questa macchina, questo Asclepio traslato su Instagram, nell’uncanny valley, lo strumento che misura la collocazione di un’intelligenza artificiale su una scala che va dal familiare al perturbante. Quant’è perturbante Midjourney, il bot con l’avatar di una barca stilizzata, che riceve il tuo comando e lo interpreta attingendo a ciò che tu non sei, al serbatoio di sogni estranei, comuni, accorpati come nel film d’animazione Paprika i personaggi dei sogni che invadevano le città?
Nello specchio oscuro dei server, le figure emergono lentamente, come un inconscio che instancabile macina e produce: all’inizio sono macchie alla Rorschach, poi diventano volti realistici, quattro versioni possibili che si possono scomporre in altre quattro variazioni, e così via, in un caleidoscopio infinito che si ferma solo quando l’utente è soddisfatto. E dunque la domanda successiva è: se l’intervento dell’utente è solo narrativo, e non fattuale – ovvero fornisce al bot i dettagli compositivi e concettuali della scena, ma non agisce sulla realizzazione se non interrompendo l’infinita giostra compositiva – si tratta o no di arte? (Che poi, anche le fotocamere dei cellulari, ormai, si appoggiano massicciamente sull’AI, per definire dettagli sfocati attingendo a un ricco database, e persino la nostra stessa percezione del mondo è un racconto che si sviluppa secondo schemi e pattern del cervello). E soprattutto: potremmo considerarla una nuova interpretazione dei sogni, dove il setting non è più il lettino freudiano ma l’app discord?
Io penso che la questione non sia tanto quella che pare tormentare i più, ovvero se sia arte o no (altrimenti dovremmo fare un passo indietro e chiederci quanto conta, nel concetto di arte, l’intervento estetico, e se può bastare quello concettuale) ma di chi sia, mia o della macchina, oppure di nessuno: creazione oscura dell’inconscio collettivo, fantasmagoria junghiana, vetrino impazzito di un caleidoscopio di visioni che appartengono a tutti e dunque a nessuno. Non esiste copyright, le immagini si susseguono in una infinita caverna di Lascaux, incoerente ed esorbitante, più simile a un dark web della mente che alla schermata di un’App. E le domande si moltiplicano, più numerose dei pixel, ma per ora mi basta attraversare lo specchio e perdermici dentro. —