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 2023  aprile 17 Lunedì calendario

Una serata agli alcolisti anonimi

«Sono Barbara e sono un’alcolista». In una sala presa in affitto dalla Comunità di Sant’Egidio, al numero 3 di via degli Olivetani, pieno centro di Milano, fra il carcere di San Vittore e il Museo della Scienza e della Tecnica, una signora di una cinquantina d’anni, maglioncino di lana, tono di voce pacato, prende la parola dopo aver scandito la frase di rito. «Sono arrivata qui perché una domenica mattina mi sono ubriacata con tutto il barolo dell’arrosto fino a perdere conoscenza. Mi sono svegliata a mezzanotte con un gran dolore alla gamba: il mio compagno, per il nervoso nel vedermi in quello stato, mi aveva presa a calci. È stato allora che mi sono detta: mai più».
Ad ascoltarla ci sono una quindicina di persone, più uomini che donne, fra i 40 e gli 80 anni, seduti in cerchio attorno a un tavolo imbandito con bibite, caramelle e cioccolatini. Alle loro spalle ci sono due elenchi con i «12 Passi» e le «12 Tradizioni», i principi guida individuali e le regole collettive che disciplinano il percorso dentro i gruppi degli Alcolisti Anonimi, l’associazione apolitica e areligiosa che riunisce chi desidera smettere di bere e chi, dopo esserci riuscito, vuole aiutare anche gli altri a raggiungere la sobrietà. In un armadietto bianco sono custoditi i libri e gli opuscoli che costituiscono «la letteratura», ovvero le esperienze e le riflessioni che hanno aiutato generazioni di alcolisti a vincere i propri demoni. Partendo dall’intuizione di Bill e Bob, i due amici americani che negli anni Trenta capirono che, confrontandosi e aiutandosi fra pari, è possibile riuscire in quello che da soli sembra impossibile. «Se hai un problema con l’alcol e vuoi smettere è un problema nostro. Se non vuoi smettere è un problema tuo», come c’è scritto in modo molto schietto nel kit distribuito ai nuovi arrivati. Da qui discende lo stile un po’ vintage che punta più che sul marketing sul passaparola e sul numero verde 800411406. E sull’anonimato come regola aurea, perché «bisogna sempre ricordarsi di mettere i principi sopra le personalità». Da questo discendono anche i continui riferimenti a un dio o a un’entità superiore, che non va però interpretata in senso religioso ma piuttosto come la necessità, per cambiare davvero, di intraprendere una qualche forma di cammino spirituale. «La cosa fondamentale è l’umiltà – spiega Riccardo, che fa un po’ da coordinatore dei vari gruppi milanesi -. Già essere qui, vedere che altri hanno passato la stessa cosa e adesso stanno meglio, è un po’ affidarsi a un potere superiore. Poi ognuno ha le sue convinzioni religiose o filosofiche».
Dopo Barbara è la volta di Giorgio, capelli grigi e caschetto della bicicletta tenuto stretto in mezzo alle gambe, alla perenne ricerca di un equilibrio fra psicofarmaci e sedute dallo psicologo. Non tocca un goccio di vino da 15 anni ma è come se i giorni in cui si addormentava dopo essersi scolato due cartoni di bianco da 99 centesimi gli facessero ancora compagnia. Federico, invece, 55 anni, si commuove mentre confida agli altri di aver accompagnato la mattina stessa sua madre in ospedale. «Mi ha tenuto la mano, si fida di me. È un regalo enorme perché per tutta la vita per lei sono stato quello che tornava a casa a notte fonda con la macchina sfasciata», dice. Caterina, che ha l’aria di una prof di Lettere, racconta di aver trascorso una buona Pasqua. «Le feste comandate sono una delle cartine di tornasole più forti – spiega -. Prima dovevo cominciare a bere ore prima per stare dentro a una situazione di festa. Piano piano ho scoperto che si possono vivere anche senza bere e negli ultimi tempi che si possono vivere anche con gioia». Tiziano, 79 anni, ricorda quando non aveva più i soldi nemmeno per il tram e quando doveva tornare a casa sempre più tardi perché era caduto anche nella droga e i pusher lo cercavano per riempirlo di botte. Fabio riconosce di aver rischiato «di diventare una persona anaffettiva».
Ogni intervento segue regole precise: chi vuole parlare alza la mano, attende il proprio turno e poi pronuncia il proprio nome, chi ascolta interviene solo alla fine per ringraziare e poi se vuole per dire la sua su quello che ha appena sentito. Un vero esercizio di ascolto e comunicazione. Quando Fulvio, in fase di separazione dalla moglie e con una figlia di nove anni, ammette di aver avuto una giornataccia, di aver bevuto pesantemente e di essere stato tentato dall’idea di non presentarsi all’incontro, Luca gli esprime la sua vicinanza: «Anch’io come te sono stato uno sportivo e tre anni fa, appena andato in pensione, credevo che avrei finito i miei giorni al tavolino del bar aspettando una malattia fatale. Oggi ho ripreso ad allenarmi».Quella di via degli Olivetani è solo una delle quindici «stanze milanesi» che si riuniscono almeno tre volte a settimana. Due di queste sono all’interno delle carceri, un’altra, chiamata «Il Gabbiano», si trova nel quartiere Isola ed è aperta tutti i giorni. I frequentatori abituali sono 400. Un dato in linea con il resto d’Italia, dove gli AA raccolgono alcune decine di migliaia di persone in 430 sedi, e con il resto dell’Europa continentale. Nel mondo anglosassone i numeri sono più alti. «Con il Covid qualche gruppo ha chiuso ma con le riunioni su Zoom abbiamo raggiunto risultati insperati e anche quest’anno festeggeremo una decina di primi compleanni senza alcol – fa il punto Riccardo -. Arrivano sempre più giovani ma in realtà l’età media di ingresso è fra i 40 e i 50 anni, quando uno fa davvero i conti con i propri fallimenti. Siamo assolutamente trasversali: abbiamo avuto manager e casalinghe, bidelli e sacerdoti».Al termine della riunione gira un cappello dove ognuno può lasciare un’offerta. Una parte resta al gruppo per pagare le proprie spese – gli Alcolisti Anonimi non ricevono aiuti esterni e anche per chi vuole lasciare qualcosa in eredità la somma massima accettata è 5 mila euro -, l’altra finanzia il livello nazionale e internazionale che si occupa di tramandare il metodo. «Sono sobrio da 11 mesi ma ho bisogno di venire qui per non dimenticare che l’alcolismo è una malattia – dice Marco, 48 anni, le braccia tatuate e una vita trascorsa fra comunità di recupero e carceri -. Dopo ogni ricaduta rialzarsi è sempre più difficile». —