La Stampa, 17 aprile 2023
Bologna multietnica
Talvolta, quando sui social mi danno del “radical chic da Ztl”, vorrei rispondere che in realtà abito alla Bolognina.Poi mi chiedo: ma chi accidenti lo sa, in Italia, cos’è la Bolognina? Al massimo qualche boomer come me ricorderà l’omonima svolta del 1989, quando, in una sezione che oggi è un parrucchiere cinese, Achille Occhetto annunciò la chiusura del Pci e la nascita del Pds. Girato l’angolo, arrivava Berlusconi contromano con un Tir. Ma per il resto del Paese – pardon: della Nazione – il quartiere periferico in cui vivo resta un posto da cercare su Google Maps per arricchire la propria collezione di chissenefrega.Questo almeno fino a qualche giorno fa. Poi una storia di colore, e il colore predominante non era il bianco, ha attizzato gli appetiti dei cattivisti da tastiera.Casus belli, le Scuole elementari in cui hanno studiato entrambe le mie figlie. Un articolo su Repubblica raccontava dell’esistenza di una classe con un solo bambino italiano, e di come questi simulasse natali a New York per sentirsi uguale agli altri. Una battuta (i bambini sanno essere spiritosi) immediatamente trasformata in indignazione contro le classi ghetto, l’attacco alla nostra cultura, fino alla dirimente definizione dell’europarlamentare leghista Susanna Ceccardi: stranieri a casa nostra. E via di like a pioggia.Così, ho pensato di approfittarne per regalare alla Ceccardi, ai ventimila euro al mese che riceve per parlare da lontano di cose che non sa, ivi spedita dopo aver straperso elezioni Regionali che probabilmente l’avrebbero vista soccombere anche contro l’Orso Yoghi, per quanto abbia ceduto a un avversario dabbene, alcuni elementi che rendono quella scuola un esempio di come ci sia una sola cultura sconfitta: quella delle barriere. La sua.Cominciamo da un dato opinabile (e Ceccardi opinerà, oh se opinerà): quei bambini sono italiani. Cioè: sono nati qui, da genitori stranieri. Ma attengono alla comunità di cui fanno parte e tengono viva una lingua che nel mondo parliamo quasi solo noi. Come i due tizi – un cingalese e un pakistano, ad occhio – che ieri pomeriggio, in un bar gestito da cinesi, ho visto spiegare a un anziano maghrebino come registrarsi al sito delle Poste. Ho le foto per provarlo. Di più: fanno davvero i lavori che noi non vogliamo più fare, tipo tifare Bologna. Quando vedi qualcuno con la maglia rossoblù addosso, e non è dell’Inter o della Juve, facile che sia almeno di Lagos.Se quei bambini non sono italiani è perché, se lo fossero, Ceccardi e i suoi perderebbero molti dei voti causati dalle presunte emergenze che creano. Esattamente come la legge fabbrica-clandestini che sta per abolire la protezione speciale. Togliere diritti crea infelicità in chi li perde e paura negli altri.Secondo tema: quella delle Federzoni non è una classe ghetto. Rappresenta il quartiere. Il quartiere era operaio, ma le fabbriche hanno chiuso. Ora ospita le etnie che spaventano le Ceccardi, i Salvini, le Meloni. Che convivono come si può convivere in una qualunque periferia italiana. C’è un po’ più di criminalità, come in qualunque periferia, perché curiosamente povertà e delinquenza spesso non sono disgiunte, ma c’è anche un modello inclusivo pienamente rappresentato, tutelato, servito, dalle insegnanti che la politica paga due spicci. Non è Harvard, ma è una scuola decorosissima. E senza i quattro del bar di cui sopra, a Bologna ci sarebbe fin troppo parcheggio: quando ero piccino puntavamo a contendere il tetto dei 500.000 abitanti a Firenze. Ora ne abbiamo 388.000 (qualcuno in più di Firenze: son soddisfazioni).Terzo tema, ed è quello che a Ceccardi darà più fastidio: per quei bambini, che nel mio caso sono adolescenti o post-tali, il problema della cittadinanza non si pone. Che li vogliate cittadini o no, sono oltre. Quando chiedo alle mie figlie da dove vengano le loro amiche, e i loro amici (o anche quelli che stanno loro sulla uallera, mica sono sempre rose e fiori) strabuzzano i neuroni. È un non problema. La società multietnica da cui tutti veniamo, imbastarditi e migliorati da secoli di contaminazioni e migrazioni, non fa loro paura. E manco hanno da sapere, come noi che a Bologna siamo nati nello scorso millennio, quanto la presenza di un qualche altrove entro le mura – siano gli immigrati, siano gli studenti che peraltro i bolognesi doc trattano come carne da cannone a 1000 euro il posto letto – ci aiuterà forse a superare i cascami della svolta di Occhetto: la fine della città vetrina, la retrocessione da capitale di un sistema a luogo sempre più provinciale e rinculante. Tipo l’Italia che sogna Meloni.Forse è un caso, forse no, che ieri la mia povera Bolognina mi apparisse bellissima (e no: bellissima non è, è pure sporca assai).Un po’ perché la giravo portando a spasso mia mamma in carrozzella, una specie di carta moschicida per sorrisi. Tutti o quasi – oddio – di carnagione affatto rosea. Un po’ perché fuori dalle Federzoni, sul muro che inneggia all’inclusività opera di Gianluca Cresciani, tra i foglietti per la pace appesi dai bambini, l’artista urbano Giovanni da Monreale stava reinstallando il suo “8": l’allegoria di un bambino attaccato allo smartphone che in quartiere avevamo adottato appunto otto anni fa. Qualcuno l’aveva vandalizzato, ieri è tornato al suo posto. A strappare ilarità o spavento ai passanti che vanno verso la stazione ferroviaria. Dietro alla quale le Elementari stanno.A festeggiarlo, insieme al pittore Valente Taddei, che lo segue in queste incursioni di satira introspettiva in giro per l’Italia, un piccolo comitato di quartiere. Il vicino-sentinella che scaccia i vandali dalla finestra, un tizio simpatico che distribuiva Dixie al formaggio e prosecco, un passante padovano. Più tardi, sarei passato da piazza dell’Unità (d’Italia, state tranquilli) e avrei scorto un 8 in carne e ossa di fianco al campo di basket in cui giovani bolognesi di tutte le etnie sognano l’Nba. A occhio, maghrebino.Persino troppo integrato