la Repubblica, 17 aprile 2023
I migranti salvano l’economia Usa
Anche se molti politici non lo ammetteranno mai, l’economia degli Stati Uniti sta andando molto meglio di quanto la maggior parte degli analisti si aspettasse. L’occupazione continua a crescere a ritmo sostenuto e l’inflazione, pur rimanendo troppo alta, sta probabilmente scendendo. Come ci stiamo riuscendo?
Le ragioni sono sicuramente molteplici. Ma forse non avete sentito parlare di un ingrediente di quella salsa speciale che è l’economia: un’improvvisa e salutare ripresa del saldo migratorio, che nel 2022 è salito a oltre 1 milione di persone, il livello più alto dal 2017. Non sappiamo se questa ripresa durerà, ma è stata davvero utile. È un’esagerazione, ma in parte vera, dire che gli immigrati stanno salvando l’economia degli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti, nonostante il forte aumento dei tassi di interesse, il mercato del lavoro rimane tenacemente forte e ha registrato 236.000 nuovi posti di lavoro nel mese scorso. Non solo l’occupazione si è ripresa con una rapidità sorprendente dalla recessione scatenata dal Covid, ma sta addirittura superando le previsioni pre-Covid. Nel suo studio sulle previsioni relative al Bilancio e alle prospettive economiche del 2020, pubblicato poco prima che esplodesse il Covid, l’Ufficio di Bilancio del Congresso aveva previsto che l’economia statunitense avrebbe prodotto 2 milioni di nuovi posti di lavoro nei successivi tre anni.
In realtà, sono stati più di 3 milioni.
Nello scompigliato contesto politico odierno, le buone notizie sono spesso considerate cattive. La Fed sta cercando di rallentare l’economia, forse perfino di generare unarecessione, per rallentare l’inflazione. Un grande numero di occupati dovrebbe essere preoccupante, foriero di un peggioramento dell’inflazione.
Ma questo non sembra accadere. Il dibattito tra gli economisti che si scervellano sulle viscere dei dati sui salari e sui prezzi, alla ricerca di previsioni per il futuro, è noioso anche per noi che dobbiamo occuparci di queste cose per mestiere. Nel complesso, comunque, sembra che l’inflazione stia semmai diminuendo, nonostante l’infuocata creazione di posti di lavoro. Come è possibile?
Osserviamo l’economia statunitense negli ultimi tre anni: di fronte a una pandemia che ha temporaneamente bloccato gran parte dell’economia, il governo federale ha risposto con enormi programmi di supporto per aiutare i lavoratori licenziati, le imprese in difficoltà e altro ancora.
Questi programmi hanno alleviato notevolmente quelle che avrebbero potuto essere gravi difficoltà economiche, ma hanno anche mantenuto o migliorato la capacità del pubblico di acquistare beni e servizi in un momento in cui la capacità dell’economia di fornire tali beni e servizi era ridotta dalle interruzioni legate alla pandemia. Il risultato è stato l’inflazione.
Ora, molti dei disagi dovuti alla pandemia sono superati; i problemi nella catena di approvvigionamento sono stati per lo più risolti e i grandi pacchetti di aiuti si vanno affievolendo. Ma, fino a poco tempo fa, molti sostenevano che la pandemia avesse danneggiato a lungo termine la capacità produttiva dell’economia statunitense,soprattutto riducendo la potenziale offerta di lavoro.
Ad esempio, a novembre Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve, tenne un discorso in cui sosteneva che mancavano ancora “milioni di lavoratori” rispetto alle aspettative pre-Covid. Il Covid aveva ridotto direttamente l’offerta di lavoro, uccidendo circa 400.000 potenziali lavoratori; i sintomi di un long-Covid potrebbero impedire a molti altri di lavorare. Powell affermava inoltre che la pandemia ha portato a milioni di prepensionamenti da parte di lavoratori anziani che difficilmente torneranno. Infine, sottolineava il forte calo del saldo migratorio.
A distanza di pochi mesi, molte delle preoccupazioni di Powell, anche se non tutte, non hanno trovato conferma. Le affermazioni sui pensionamenti anticipati non sono supportate dai dati: la partecipazione alla forza lavoro degli americani tra i 55 e i 64 anni è tornata pienamente ai livelli pre-Covid.
E, come ho detto, l’immigrazione ha registrato una vera e propria ripresa. Gli immigrati recenti sono per la maggior parte adulti in età lavorativa; secondo i dati del censimento, il 79 per cento dei residenti nati all’estero e arrivati dopo il 2010 ha un’età compresa tra i 18 e i 64 anni, rispetto al 61 per cento della popolazione in generale. Quindi l’aumento dell’immigrazione ha probabilmente avuto un ruolo significativo nel permettere all’economia di mantenere una rapida crescita dei posti di lavoro senza suscitare un’impennata dell’inflazione.
L’immigrazione, dunque, ha contribuito a limitare gli effetti negativi a breve terminedell’elevata spesa per la pandemia. E nel lungo periodo?
In questa prospettiva, gli argomenti a favore di un aumento dell’immigrazione sono ancora più forti. Le preoccupazioni a lungo termine per le finanze degli Stati Uniti sono in gran parte determinate dall’aumento del tasso di dipendenza degli anziani, che considera la crescente percentuale di anziani rispetto al totale della popolazione adulta, che comprende sia gli anziani che le persone in età lavorativa. Se definiamo l’età lavorativa come compresa tra i 18 e i 64 anni, l’indice di dipendenza degli anziani negli Stati Uniti – calcolato sulla base dei dati del censimento – è del 27,5 per cento. Per i residenti nati all’estero e arrivati dopo il 2010, il rapporto è solo del 5,8 per cento. In pratica, i nuovi immigrati pagano il sistema, ma non ne riceveranno particolari benefici ancora per molti anni.
Da un punto di vista economico, quindi, la ripresa dell’immigrazione è un fatto positivo per tutti. E un sistema politico razionale, che non fosse ingannato da false affermazioni su immigrazione e criminalità, accoglierebbe con favore una ripresa sostenuta dell’immigrazione.
Ah, e una nota personale: a dispetto di quanto avrete sentito su Fox News, la città di New York, dove il 36 per cento dei residenti è di origine straniera – nel distretto del Queens arriva al 47 per cento – in realtà, non è un inferno.