la Repubblica, 17 aprile 2023
Intervista a Sara Simeoni
Sara mercoledì ne fa 70. Simeoni e Mennea sono stati la Premiata Ditta dei record. E di medaglie. Una in pedana, l’altro in corsia. Big Italy con loro volò nel mondo. Iniziò Sara con il 2,01 nel salto in alto (nel ’78), continuò Pietro (nel ’79) nei 200 metri. Il record mondiale di Sara durò quattro anni (in Italia 29), ma per le donne significò scavalcare il confine.
Sara, molti campioni oggi fanno i dirigenti.
«Io no, le altre sì. Federica Pellegrini come atleta siede al Cio, Silvia Salis, ex martellista, è vicepresidente Coni, Stefano Mei guida la federazione di atletica.
Canottieri e schermidori hanno anche loro posti di rilievo. Ma a me fare la donna immagine non interessava, la proposta era quella, essere una figurina, non quella di entrare nella stanza dei bottoni.
Quella opportunità non c’è mai stata. Anzi volessero farmi un regalo per i miei 70 anni chiederei loro: perché? Ma dubito della loro sincerità».
Però Forlani, Prodi e Berlusconi volevano candidarla.
«Ma io non ho mai cercato poltrone. E quando in Veneto in una lista civica mi hanno votato in 2.223, alla fine hanno scelto un altro che di voti ne aveva presi 400. Solo il presidente Nebiolo ha cercato veramente di aiutarmi. Per gli altri non esisto».
Lei si piaceva?
«Ammiravo le Kessler, non mi sentivo Claudia Schiffer, ero più Pippi Calzelunghe. Molto a disagio con le mie gambe, che avrei volentieri cambiato. In famiglia tutti secchi e asciutti, con la stranezza di avere un padre veneto astemio. Sono cresciuta in campagna, a Rivoli Veronese, con due sorelle e un fratellino. Avrei proseguito con la danza, ma ero troppo alta. Forse oggi per il balletto moderno andrei bene. Non mi consideravo una bella gnocca. E il mio 41 di piede non aiutava, come il materiale di allora. Cercavamo tutte di farcelo star bene».
Approva il look di oggi?
«Direi che tra collane, piercing, tatuaggi, extension, trucco, tinte, parrucche, manicure ci siamo.
Dopo tanti eccessi, dopo gli anni in cui le atlete sembravano in costume da bagno, anzi in tanga, la linea è migliorata, premia la femminilità. Io il mascara non me lo sarei mai potuta mettere, perché piangevo, solo quando vincevo, tengo a precisare».
Ultimo tabù: le atlete chiedono studi sul ciclo mestruale.
«Ma va, lo studiavano anche ai miei tempi. Come prevenirlo e bloccarlo. Io non ho mai voluto, losapevano, e mi hanno rispettata.
Però se le gare duravano molto, le difficoltà c’erano, e anche qualche imbarazzo, il materiale non era studiato per le donne, così io scappavo spesso in bagno».
Ma lei fece il record del mondo in quei giorni.
«Sì, avevo la pressione bassa, non mi tenevo in piedi e non mi allenavo da tre giorni. Arriva Livio Berruti e mi vede un po’ giù: daiSara facciamoci un bicchiere, ho portato un’ottima Bonarda piemontese. Ma Livio, devo saltare. Insistette: una bevuta, che sarà mai? Aveva ragione, mai fatta una curva in gara così rilassata. Attornoallo stadio di Brescia non c’erano edifici alti, era il 4 agosto, il sole stava per tramontare, guardavo l’orizzonte, tutto era libero, non potevo fare confronti con l’asticella. Il 2,01 venne alla seconda prova, molto pulito. Nove salti in tutto, tre sbagliati, due record italiani, il primo a 1,98. Poteva bastare. La Rai non c’era, era dagli uomini. A quei tempi era così: prima loro, poi se restava qualcosa era per noi. Per fortuna si sono recuperate le immagini da Brescia Telenord».
Cinque generazioni fa lei già volava dove arrivano le azzurre oggi.
«Cosa devo dire? Possibile che un giorno siano invincibili e strepitose e l’indomani nemmeno si qualifichino per le finali? Mi dicono: non hai mai sbagliato una gara. Oddio, vero: un oro e due argenti olimpici lo dimostrano. Ma io 27 giorni dopo quel 2,01 l’ho risaltato agli Europei di Praga. Non ero una stella cadente. La differenza è questa: noi ci allenavamo per essere in forma nel momento più importante dell’anno. A quel punto sapevamo il nostro valore e da lì non ci tirava giù nessuno».
Non avesse fatto la saltatrice?
«Disegnavo bene, vengo dal liceo artistico, avrei fatto l’architetta o la designer, mi piaceva girare per mercatini. Casa nostra l’ho arredata io, ho tenuto una madia di famiglia».
L’atletica di oggi?
«Bravi, ma molti personaggi sono costruiti. Spesso c’è la loro narrazione, ma non il contenuto.
Noi facevamo risultati, eravamo persone, nessuno ci raccontava, parlavano le misure».
Settant’anni felici, sembra.
«Sì, senza sembra. Con Erminio Azzaro, mio marito, anche lui ex saltatore, mio allenatore, che ha lasciato cicche ovunque negli stadi, quando ancora si poteva fumare, e con Roberto, nostro figlio, abbiamo costruito una famiglia. Non fu facile dire ai miei che andavo con Erminio a Formia ad allenarmi. Con Pietro Mennea dividevamo le ore al campo, poi ognuno per conto suo. Mi è dispiaciuto, una pizza in più non avrebbe guastato ma lui era fatto così».
Almeno ha vissuto l’atletica.
«Sì, con molte avventure in America, Giamaica, Senegal. Non ho mai pensato che l’atletica fosse una cosa e la vita un’altra. Le ho mescolate, convinta che non avrei avuto rimpianti. A 33 anni ho detto basta. Senza avvisare nessuno. Le cose si fanno, non si annunciano».