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 2023  aprile 17 Lunedì calendario

Biografia di Diego Armando Maradona

Il Dio di Napoli tra vizi e prodigi. Nel 2003 era grasso, irriconoscibile: ma fece un clamoroso palleggio con una pallina da golf
Quando Diego Maradona  su un mare di fango iniziò lo show (con le scarpe slacciate)
L’altra sera finisco a cena in una casa magnifica su al Gianicolo. Panorama strepitoso, Roma e le sue cupole illuminate come dentro una cartolina: il proprietario è un napoletano cresciuto al Vomero, un ultrà del Napoli travestito da avvocato civilista, elegante fino al sussiego.
Adesso: immaginate dieci persone intorno a una tavola dove arriva la prima portata (mezze maniche alla gricia, in purezza). Il tempo di poche forchettate, i complimenti per la mantecatura perfetta, poi gli argomenti diventano subito due: le signore affrontano (dividendosi) il caso della deputata di Fratelli d’Italia Rachele Silvestri, il gossip che diventa tema politico, con lei costretta – l’ha raccontato in una lettera al Corriere – a sottoporre suo figlio all’esame del Dna, provvedimento estremo che però non sopisce le perfidie e anzi le attizza, tra curiosità morbosa e sudicia ciancia, chi è il vero padre, chi non è, chi è – soprattutto – il pezzo grosso del partito sospettato d’essere l’amante (la sua identità spifferata, come in tutta la città, a bassa voce).
Noi maschi, invece, a parlare di calcio. O meglio: del Napoli e dei suoi nuovi eroi che si apprestano a vincere il terzo scudetto. Con memorabili, ripetute corna del padrone di casa. Ed esaltazione totale di Khvicha Kvaratskhelia, l’attaccante georgiano rivelazione del campionato.
Poi: più che attaccante, ala. Con le giocate proprio da vecchia ala sinistra. Di dribbling secco, sempre dentro l’incertezza su cosa stia per decidere: tira o mette il compagno solo davanti al portiere?
Gran calciatore.
Già adorato.
Tanto. Troppo.
E infatti paragonato.
Addirittura a lui. A Diego. Il Dio del calcio che si fece uomo e venne a giocare per noi, tra noi.
Mentre mangiamo un’arista di maiale alle mele, glielo dico: scusate, ma voi state bestemmiando. Va bene l’euforia battente, la felicità trattenuta, la scaramanzia ossessiva che annebbia. Forse, però, vi siete dimenticati di cos’era Maradona.
Torna utile il cassetto segreto dei ricordi di una giovinezza svanita. Ed ecco: siamo nell’inverno del 1990, il Napoli cerca il suo secondo scudetto (l’altro, l’ha vinto il 10 maggio di tre anni prima). I giornali ci facevano scendere sul golfo ogni settimana non tanto e non solo per seguire la squadra, ma quel fenomeno del suo capitano argentino: talento superdotato, fragile e commovente, che un’intera città voleva abbracciare e baciare nell’eccitazione dei capolavori calcistici, proteggendolo a suo modo da altre imprese private, consumate nella penombra di certi locali notturni, dentro una bolgia di amicizie sbagliate, e nella residenza di via Scipione Capece 3/1, luogo di efferati mischioni. Con mogli, fidanzate e amanti di passaggio: il circo dei suoi straripanti sentimenti, della sua vorace fame di sesso e di affetto.
Un giovedì pomeriggio, vigilia di non ricordo più quale partita casalinga, ci si ritrova a Soccavo, alle pendici della collina dei Camaldoli: campo d’allenamento primordiale in terra battuta con radi ciuffi d’erba, le pareti degli spogliatoi gonfie di umidità, l’acqua calda che viene e va, la tribunetta per noi cronisti senza vetri, senza sedie, senza tavoli. All’improvviso, il cielo basso e grigiastro esplode in una bufera di pioggia, con un vento a tormenta che sale dal mare: il terreno di gioco – nel volgere di pochi minuti – si trasforma in una rettangolo di fango. I calciatori chiedono allora di sospendere la seduta, ma Albertino Bigon, l’allenatore, è inflessibile: squadra titolare contro riserve, si gioca lo stesso.
Diego (che, se c’era il sole, spesso si divertiva a giocare tra i pali: e, anche tra i pali, un gatto meraviglioso) si avvia verso il cerchio di centrocampo, e lì resta. Non si muove più. Ma ogni volta che gli arriva il pallone – uno di quei palloni con cui si giocava all’epoca, zuppo e pesantissimo – lo accarezza con la punta, lo alza e inizia a fare giocate incredibili. Tacco, coscia, testa, e poi slang! lanci da quaranta metri per un compagno o proprio a cercare direttamente, laggiù, la porta avversaria.
Spettacolo assoluto.
Fantascienza.
Noi cronisti cominciamo però a notare anche un dettaglio: appena Diego colpisce il pallone (indifferentemente con il destro o con il sinistro), c’è qualcosa di nero che emerge dal fango, come un piccolo lampo. Cos’è?
Lo scopriamo mezz’ora dopo, al termine della partitella. Quando Diego, che chiamiamo a gran voce – «Diego! Ehi, Diego, siamo qua!» – viene a salutarci (la sua pazienza era infinita e piena di dolcezza). A passi lenti, fradicio, i ricci appiccicati sulla fronte, sorridente, si ferma sotto la tribunetta: e lì ci accorgiamo che ha giocato nel fango che arriva alle caviglie con gli scarpini – completamente – slacciati. Capito? Sla-ccia-ti.
Pazzesco.
Il 29 aprile di quell’anno, battendo in casa la Lazio per 1 a 0, il Napoli vinse poi il secondo titolo tricolore. Per una serie di circostanze rocambolesche, nella pancia del San Paolo, in quell’impazzimento diffuso, mi ritrovai – con Ciccio Esposito del Corsport e quell’altro campione di Gianni Minà – in uno stanzone laterale allo spogliatoio della squadra azzurra. Diego era ancora in tenuta da gioco. Parlò quasi solo Gianni, che era suo amico personale. Diego, esausto, disse poche parole. «Non ho vinto soltanto per i napoletani e gli argentini. Ho vinto anche per tutti quelli che, di solito, perdono».
Lo rividi tredici anni dopo.
A Fiuggi, nel locale circolo del golf.
Maradona mancava dall’Italia ormai da molto tempo, ma aveva finalmente deciso di incontrare suo figlio Diego Junior, nato dalla relazione con Cristiana Sinagra. Tutto era stato organizzato da Giuseppe Incocciati, ex compagno di squadra a Napoli, che viveva nella zona.
Diego era irriconoscibile.
Grasso, con le palpebre socchiuse, camminando storto si avviò giù per i campi, cercando un punto riparato dagli alberi dove poter parlare con Dieguito. Ma, mentre era lì che aspettava, vide una pallina da golf.
Le palline da golf sono piccole e tremendamente dure. Però sono tonde.
Un dettaglio che scatenò l’istinto di Diego: colpetto sotto e, subito, quella pallina cominciò a restare in aria, destro sinistro destro, in un palleggio clamoroso. La coca non gli era ancora arrivata ai piedi.
Con il figlio parlò un’ora. Si salutarono con un lungo abbraccio. Poi, accompagnato dal suo manager Guillermo Coppola, finì a pranzo in un ristorante a pochi chilometri, «da Gino». Coppola mi invitò al loro tavolo. Diego rimase muto. Divorò solo un enorme vassoio colmo di pesce fritto. E vuotò quattro lattine di Coca-cola. Si assopì per qualche minuto e stava sbadigliando, quando arrivarono tre brutte facce. Parlavano un dialetto napoletano ruvido, metropolitano, pericoloso. Quello che sembrava essere il capo disse qualcosa nell’orecchio di Diego. Che annuì. Poi ci salutò con una smorfia triste, e seguì il tipaccio verso il bagno.
Si era, da tempo, già consegnato al suo destino speciale e tragico. Ma sapeva di aver compiuto la missione per cui era sceso sulla terra: rendere felici gli ultimi e dimostrare che l’impossibile è possibile.
(A questo punto del racconto, il padrone di casa ha interrotto le chiacchiere degli altri commensali: e, alzandosi con gli occhi acquosi, ha proposto un brindisi, invocando la protezione di Diego sul Napoli, e su Napoli).