Corriere della Sera, 17 aprile 2023
Intervista a Leonardo Pieraccioni
Leonardo Pieraccioni, cosa facevano i suoi genitori?
«Mamma aiutava un’amica a vendere la lana per i lavori all’uncinetto, papà per cinquant’anni ha fatto il commesso in un grande studio di avvocati».
La sua età più bella?
«I miei primi quattordici anni. Si rideva tanto in casa, in via della Mattonaia, quartiere popolare di Firenze. Per tutta la vita ho cercato di riprodurre il suono di quelle risate. Erano catartiche, in famiglia si prendevano in giro con gli amici, come da tradizione toscana, sembrava di stare sul set di Amici miei. Quelle risate sono state un buon auspicio per il mio futuro».
A scuola come andava?
«Ho il diploma di terza media. Quando mi bocciarono a scuola, il mi’ babbo per farmi capire che la vita dei non istruiti è difficile mi mise a lavorare in una falegnameria dal suo amico Arturo Vannini che nel film Il pesce innamorato ho omaggiato: faccio il falegname e mi chiamo Vannino. Tuttora mi piace l’odore del coppale. Ma il mio sguardo era sempre rivolto al Teatro Verdi, che era di fronte alla bottega».
Questa cosa della terza media...
«Ho provato come perito aziendale, mi ritrovai in una classe con 2 ragazzi e 25 ragazze. La professoressa di matematica, Pravisani, mi chiese: fai ancora gli spettacolini in tv? Sì. Ecco, continua a farli perché la scuola non fa per te. La presi alla lettera».
E ha cominciato a recitare.
«A 16 anni, con le imitazioni di Troisi, Bombolo, Benigni. Ho smesso quando ho capito che ridevano dei personaggi e non delle cose che dicevo io. Presto cominciai con il cabaret normale. La mia gavetta sono stati i pub, le piazze».
Il salto?
«In tv, a Fantastico 1992, con la grande Raffaella Carrà. L’unica che credette in me. Avevo fatto un biglietto da visita con su scritto: Leonardo Pieraccioni, provinista professionista. A Roma avrò fatto quaranta provini per tutti i programmi possibili e immaginabili. Ne ricordo uno al Bagaglino di Pingitore. Ma avevano ragione loro, ero un misto tra i comici toscani, Benigni, Benvenuti, Nuti, e non avevo sviluppato la mia personalità. A quell’età avevo i capelli corti, la giacchetta di velluto anche d’estate, sembravo un pinolo, uno fuori posto. Lavoravo come magazziniere, leggevo Sorrisi e Canzoni dove mettevano tra parentesi l’età degli attori. Tutti sbocciavano un po’ prima dei 30 anni. Mi dissi, se fino a quell’età non hai combinato nulla torni a fare il magazziniere».
Invece centrò l’obiettivo.
«Claudio Cecchetto mi aveva visto con Carlo Conti nel varietà Succo d’arancia su una tv locale e mi chiamò a DeeJay Television. A 28 anni girai il film I laureati, su ragazzi che non volevano crescere. Chi debuttava aveva la sindrome dei David di Donatello, io mai avuta, sono un guitto, contento di ciò che faccio».
Dopo «Il ciclone» la chiamarono il Golden Boy del cinema italiano.
«Rita Rusic, che mi produceva con Vittorio Cecchi Gori mi disse, con I laureati hai incassato 15 miliardi di lire, se ne facciamo 8 sarà un successo. Il Ciclone ne incassò 78. Nessuno aveva previsto quel successo, tantomeno io».
Nemmeno quel film raddrizzò il suo cattivo rapporto con la critica.
«Fanno il loro mestiere, a volte infausto. Un film è come un figlio. Il critico è un pediatra. Spogliato il bambino dicono se ha le gambe storte. Il fatto è che trovano la gamba storta anche quando è dritta. Parlano al plurale. Ormai hanno una funzione folcloristica. Uno scrisse che ho la faccia da puffo, oggi non potrebbe scriverlo, sarebbe bullismo».
Però è strano che la sua ispirazione si accenda ogni due anni, sotto Natale.
«È fisiologico. Faccio la mia vita, ho mia figlia Martina che ha 12 anni, il teatro con i miei amici Conti e Panariello...».
C’è chi dice che lei fa sempre lo stesso film. Il ragazzo qualunque che incontra la bellona di turno.
«Non è così, quell’omino che veniva travolto da ragazze belle come modelle, prevalentemente sudamericane, e faceva scattare l’immedesimazione scatenando fantasie è rimasto fino al 2001: Il principe e il pirata è con Luisa Ranieri».
Perché le attrici dei suoi primi film si sono dimenticate? Lorena Forteza ha abitato i sogni di milioni di italiani.
«Lorena era caduta in depressione, ha avuto problemi familiari, Natalia Estrada credo continui ad allevare cavalli. Di altre non so».
Lei faceva cinema per rimorchiare?
«Non mi considero un latin lover. Mai avuto mezza storia con le mie attrici, manco mezzo bacio, se non con Laura Torrisi, con cui ho fatto una figlia».
Che fine ha fatto?
«Sta preparando qualcosa come attrice. Le donne sulle crisi di coppia a 40 anni capiscono quello che gli uomini capiscono a 50. Ci sono donne che non sono pronte a fare le mogli. Ora Laura ha 42 anni e le auguro un matrimonio meraviglioso per i prossimi 60 anni arrivando a 100 mano nella mano col suo sposo».
Perché le sue storie non durano?
«Il matrimonio è una maratona di 50 km. Bisogna avere fiato e testa per superare i momenti critici. A me dopo qualche curva mi si rompono i lacci delle scarpe. Non supero i tre anni. Ho 58 anni e non è un fatto d’età. È una sorta d’infantilismo, corro il rischio della sindrome da Peter Pan. Io ci parlo con i miei amici sposati, al 90 per cento sono separati. Poi si risposano e si riseparano. Ho la resistenza di una formica zoppa. Ma forse è vero fino a un certo punto, sto da quattro anni con Teresa che è fuori dal cinema, vendeva capsule per il caffè, ha una figlia anche lei, ci vediamo dal lunedì al giovedì, poi sto con mia figlia Martina. I genitori separati e i figli diventano coppiette, arriva il weekend e ci chiediamo, che si fa stasera, pizza o bistecca? I figli dei separati godono di una certa indulgenza dei genitori. Ho visto in tv lo psichiatra Paolo Crepet che invece su questo tema è granitico e ne ho fatto la parodia».
Lei che padre è?
«Protettivo. Il mi’ babbo quando non finivo i compiti mi diceva, sai cosa succede se non li finisci? Niente. E così sono io con la mi’ figliola. Ma so che faccio arrabbiare Crepet. Mia madre dice che sono nato vecchio, a 10 anni ascoltavo Guccini, la mia fantasia si è formata lì. Non è vero che sono sempre allegro».
Lei non ha mai lasciato Firenze.
«Mai avuto rapporti con la Romanella del cinema. L’unica festa l’ho fatta quando ho compiuto 50 anni. Venne Renato Zero con la torta, sono un sorcino da sempre. Per il resto, parenti e amici, Panariello, Conti».
E Massimo Ceccherini?
«Feci a lui la prima telefonata. Mi fai un regalo per i miei 50 anni? Non venire al compleanno. Temevo che facesse le sue battute di m..., che mi creasse imbarazzo mettendomi a disagio».
Ceccherini è un Bukowski all’italiana?
«Sì, è un poeta maledetto che da ragazzino faceva l’imbianchino col su’ babbo. Ha avuto momenti caotici con qualche bicchierino di rum di troppo. Era il terrore delle feste. Noi gente di cinema siamo piccoli imprenditori attenti a non sbagliare, lui è un vero artista, va giù dritto a 200 all’ora senza casco. Non legge i copioni, non vuole sapere niente. Ma ora è diventato un prete di provincia. Abita in campagna sopra Pistoia con una ragazza che l’ha salvato. Ma ogni tanto dovrebbe bersi un goccetto. È diventato di una noia, parla solo del figlio. Prima era troppo se stesso, come lo era Piero Ciampi».
Il cantautore di Livorno ci porta a Claudio Baglioni, che lei sequestrò in auto.
Ride: «E per due volte. Lo costrinsi a restare un’ora nella sua auto ad ascoltare le mie canzoni. Come cabarettista ho imparato tre accordi alla chitarra. Sono il Salieri dei cantautori. Volevo un parere dal Mozart della canzone italiana. Mi disse cose carine, com’è lui, aggiungendo, non sono male. Mi ha chiamato anche Amadeus per Sanremo».
Ma non l’abbiamo vista al Festival.
«Infatti. Non ci sono andato. Gli avevo proposto uno sketch in cui portavo una canzone scartata in gara. Mi lamentavo per non essere stato preso. Amadeus la ascoltò e mi richiamò: questa canzone è brutta anche tra le canzoni scartate».
Fantastico.
«Poi ho un episodio con Vasco Rossi, di cui avevo usato Una canzone per te in Fuochi d’artificio. Gli proposi di recitare la scena di un passaggio in auto. Fu l’unico a chiedermi di fare un provino. Poi il suo manager mi disse che aveva rinunciato, mai saputo perché».
Si è rifatto recitando con David Bowie. Peccato che «Il mio West» di Veronesi sia stato un flop.
«Bowie arrivò in Garfagnana, posto sperduto e meraviglioso. I set sono complicati, gli spostavano i ciak di ore e lui restava vestito da cow-boy senza lamentarsi. L’unica richiesta da divo fu che nel suo casolare i cani se ne stessero a cento metri di distanza. Era a conoscenza del mio successo e si incuriosì. Al trucco mi fece un lungo discorso, il mio inglese si fermava a “The door is open”, alla fine del suo monologo incomprensibile alle mie orecchie dissi yes. Mi guardò con un’espressione che diceva, ma è questo il divo italiano del momento? Così nei giorni seguenti cercavo di ignorarlo, come se avessi un atteggiamento snob. L’ultimo giorno gli portai una torta al limone, l’ho fatta per te, gli dissi. E lui, really? Io, entusiasta per aver capito gli risposi per dieci volte really. Quel giorno capì che ero un cialtrone. Gli chiesi l’autografo che ancora conservo».
Ha conosciuto Francesco Nuti prima che...
L’amico Ceccherini
Per i miei 50 anni come regalo ho chiesto
a Massimo di non venire alla mia festa. Temevo che con le sue battute creasse imbarazzo e mi mettesse a disagio
«Che si ammalasse, sì. Da ragazzo recitavo nei teatrini, mi chiese di andarlo a trovare a Roma, dove viveva, a Natale. Mi presentai senza appuntamento. La domestica aprì e gli disse, c’è un certo Pieracciolli. E lui, ma sei venuto davvero. Gli lessi dei soggetti orribili. Lui fu gentile, adottò il metodo Baglioni».