Corriere della Sera, 17 aprile 2023
Il salone del mobile
Apre il Salone del Mobile e Milano si fa bella. I dati snocciolati in anteprima dagli organizzatori della più grande fiera di settore del mondo lasciano presagire un nuovo e ulteriore successo.
Anche se il numero degli espositori non ha raggiunto il livello pre pandemia del 2019, la prevendita dei biglietti di ingresso ha superato nei giorni scorsi del 25% quota 2022 e soprattutto stanno per sbarcare in grande quantità gli ambitissimi buyer cinesi e americani. Nella settimana del design Milano potrà quindi far sfoggio delle qualità che ne fanno una global city, capace di attrarre businessman da tutti gli angoli del mondo e ora anche turisti in numero stupefacente. È la conferma che la città ha saputo costruire una sua identità e ha saputo proporla al mondo. La chiave è stata l’apertura ed è una ricetta che non vale solo per la città di Ambrogio: siamo un Paese votato alla trasformazione industriale e di conseguenza condannato a nuotare nel mare aperto della concorrenza, pur portandosi dietro tutti i suoi limiti e i suoi paradossi. C’è chi non ama gli spazi larghi, chi vorrebbe tenere l’Italia a bagno in una tranquilla piscina di casa ma deve sapere che così facendo non crea le condizioni per produrre più ricchezza (tanto meno per redistribuirla), ci relega invece in un ruolo decisamente più angusto. Le imprese che esporranno al Salone fortunatamente tutto ciò lo sanno bene e grazie ai loro sforzi e alla loro inventiva nel 2022 abbiamo confermato il primato tra i produttori di design-arredo europei a danno della Germania e siamo di gran lunga il Paese al mondo che esporta più mobili in Cina. I nostri prodotti più apprezzati, a New York e a Shanghai, sono quelli eleganti e sofisticati – l’alto di gamma, come si dice in gergo – e sono il frutto di una crescente ibridazione tra i linguaggi del design e della moda. Un altro evidente contributo della città del Duomo.
Mentre si appresta a vivere la sua settimana più effervescente, e forse anche caotica, Milano la Bella deve però saper guardare oltre il Salone, oltre i suoi successi. C’è in città la radicata sensazione che si sia perso il senso di marcia, la destinazione. Si è affermata in ampi strati dell’opinione pubblica, ambrosiana e non, l’idea di una città inaccessibile, troppo costosa, inevitabilmente settaria. Tutto è iniziato a causa della folle corsa dei prezzi del mattone, partita già prima del Covid ma proseguita poi imperterrita e per di più in un contesto culturale di segno opposto. Che contraddizione! Da una parte la settimana del Salone celebra le virtù dell’apertura e dell’attrattività e dall’altra si fa largo il fantasma di una città che tradisce la sua tradizione inclusiva, che soffoca la mobilità sociale e non onora la promessa fatta a chi l’ha scelta, da fuori, per venirci a vivere. Per cambiare il proprio destino professionale e non solo. Non andrebbe dimenticato che la storia di Milano è fatta anche di una straordinaria contiguità culturale tra élite e ceto medio, un’alleanza larga e generosa che ha contribuito a far maturare il celebratissimo pragmatismo ambrosiano e ha permesso nell’amministrazione della cosa pubblica che ad ogni avvicendamento di sindaco non cambiassero anche le scelte fatte dal predecessore. Non dovremmo quindi permettere che tutto ciò, che un patrimonio politico-culturale di questo rilievo vada gambe all’aria solo per i prezzi del mattone. Ci sono in città le intelligenze e le risorse per governare questa contraddizione e il recente dibattito, nato attorno alla rigenerazione urbana dell’area dell’ex acciaierie Falck di Sesto San Giovanni, sta a dimostrare che discutere, e magari litigare, serve. Milano può riprendere in mano il suo destino, può pensare di gestire la sua evoluzione di città globale guardando in faccia ai problemi vecchi e a quelli nuovi che la modernità diseguale inevitabilmente crea, può riannodare i fili che si sono spezzati e rammendare i legami sociali laddove si sono scuciti. L’errore che non deve commettere chi può contribuire fattivamente a questo processo è girarsi dall’altra parte e pensare cinicamente che sia da preferire il pilota automatico.