la Repubblica, 16 aprile 2023
Un parlamento senza voce
C’era una volta il Parlamento. Adesso rimane la parola, non la cosa. Ne è prova, per esempio, la legge sull’equo compenso dei professionisti, approvata il 12 aprile: la prima e l’unica legge d’iniziativa parlamentare giunta in porto durante questi sei mesi di legislatura. Guarda caso, prima firmataria Giorgia Meloni. Che è anche a capo del potere esecutivo, lo stesso esecutivo che ha deciso le altre 34 leggi firmate dalle Camere, o meglio scritte sotto dettatura.
Leggi di delega (al governo, e a chi sennò?), leggi di bilancio predisposte dal governo, e in 29 casi leggi che convertono decreti del governo. Da qui uno scambio di ruoli: il potere esecutivo legifera, il potere legislativo esegue. E il decreto legge – concepito per fronteggiare situazioni straordinarie – diventa lo strumento ordinario della legislazione. Non che il fenomeno s’affacci all’improvviso: l’abuso dei decreti dura da decenni. Né che rimanga circoscritto alle nostre latitudini, giacché il predominio dei governi – in tempi d’emergenza permanente – avviene in molti altri sistemi. Ma in Italia avviene a lettere maiuscole, destando tuttavia una minuscola attenzione.
Così, nei principali Paesi europei (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania) la percentuale di leggi d’iniziativa parlamentare si aggira intorno al 20 per cento; il Parlamento italiano ne ha battezzata una su 35. Molto peggio che in passato, dato che nella legislatura scorsa furono approvati, bene o male, 40 progetti di legge proposti da deputati e senatori.
Nel frattempo si gonfia a dismisura l’otre dei decreti. Come attesta l’Osservatorio sulla legislazione della Camera: i 61 decreti legge convertiti nel primo triennio della XVII legislatura contavano 3 milioni e mezzo di caratteri; quelli convertiti durante i primi tre anni della XVIII legislatura superano 5 milioni e mezzo di caratteri.
Mentre il decreto sull’energia del 30 marzo scorso – per dirne una – usa 9 mila parole, congiunte in filastrocche impronunziabili, come quella con cui s’apre l’articolo 15: “Sino all’adozione dell’intesa di cui al comma 2, e comunque non oltre sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, si applicano le disposizioni recate all’articolo 6-bis del decreto-legge del 23 luglio 2021, n. 105, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 16 settembre 2021, n. 126 e all’articolo 13 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27”.
Ma il problema non sta solo nella lingua arcana del diritto – altro malanno cui non prestiamo più attenzione, per rassegnazione o per disperazione.
Tocca piuttosto la democrazia italiana, che ha (dovrebbe avere) nel Parlamento il suo santuario.
Perché quest’ultimo è l’unico luogo delle istituzioni dov’è rappresentata pure l’opposizione, oltre alla maggioranza di governo; se perde la voce, viene silenziato anche il dissenso. Perché il Parlamento è lo specchio del Paese, mentre l’esecutivo ne riflette soltanto una frazione. E perché le Camere deliberano con una discussione pubblica, il Consiglio dei ministri decide in gran segreto. Quando decide, giacché l’officina dei decreti si trova piuttosto negli uffici legislativi dei ministeri, sono loro gli oscuri meccanici delle regole che abbiamo sul groppone.
E le conseguenze ci riguardano, benché i più non ci facciano caso. Lo spettacolo d’un Parlamento perennemente litigioso ma in realtà prono ai voleri del governo; del tutto incapace d’iniziative e di proposte autonome; per giunta generato con il perverso sistema delle liste bloccate, che vietano agli elettori di scegliere gli eletti – ecco, è questo spettacolo che ha allevato il nostro disamore.
Però la crisi di fiducia sulle assemblee parlamentari mina pure la fiducia in noi stessi, ci allontana gli uni dagli altri, ci impedisce di riconoscerci come un popolo unitario, avendo perso la rappresentanza unitaria delle nostre diverse solitudini.
Per uscirne fuori servirebbe una riforma, un cambio di stagione che rivitalizzi il Parlamento; ma la paralisi delle assemblee legislative blocca ogni tentativo di riforma, e d’altronde la riforma – se viceversa fosse licenziata – negherebbe l’antefatto, ovvero l’impotenza delle medesime assemblee. Un doppio paradosso, una maledizione al quadrato.