Domenicale, 16 aprile 2023
Chi sono i samaritani
Anche chi ha poca pratica cristiana, quando sente parlare di un «buon samaritano», sa che è una figura misericordiosa, dedita agli emarginati o ai bisognosi, e questo è una derivazione dell’omonima parabola di Gesù (Luca 10,25-37), un coinvolgente racconto non privo di colpi di scena, ambientato sulla strada romana che da Gerusalemme (800 metri) scende fino a Gerico nella valle del Giordano, a meno 300 metri rispetto al livello del mare. In realtà, i samaritani sono un’etnia particolare che affiora a più riprese nella Bibbia: un’altra scena celebre è quella che in un caldo pomeriggio vede Gesù in dialogo con una donna di Samaria, regione della Cisgiordania, presso un pozzo denominato «di Giacobbe», l’antico patriarca ebreo (Giovanni 4).
Ciò che può sorprendere è la loro sopravvivenza attuale: sono meno di un migliaio, distribuito tra Nablus (Neapolis romana), centro principale della Samaria, e Holon non lontano da Tel Aviv. Essi prediligono l’endogamia con matrimoni tra cugini che ha l’inevitabile conseguenza genetica «mendeliana» dei bambini che nascono con malformazioni. L’appartenenza è patrilineare e strettamente etnica, così da scoraggiare matrimoni misti, prassi contro cui si è battuta tempo fa una nota conduttrice samaritana della televisione israeliana, innamorata di un ebreo. In realtà, i samaritani sono da classificare come ebrei eterodossi, frutto delle unioni avvenute secoli fa, quando Samaria, capitale del regno scismatico di Israele (staccatosi da quello di Giuda con capitale Gerusalemme), fu conquistata dagli Assiri nel 722 a.C.
I discendenti sono appunto coloro che oggi sono incastonati in una regione a prevalenza musulmana e che si distanziano anche dagli Ebrei, pur avendo in comune non pochi elementi religiosi, sia pure declinati secondo tipologie differenti. Bastino solo queste due citazioni bibliche per marcare l’antico divario. Dal libro del Siracide, sapiente ebreo del II secolo a.C.: «Non sono neppure un popolo quelli che abitano sul monte di Samaria, un popolo stolto» (50,25-26). Dal Vangelo di Giovanni: «I Giudei non hanno rapporti coi samaritani» (4,9). Si comprende, quindi, la provocazione di Gesù quando poneva un samaritano a emblema di amore nei confronti di una vittima di rapina, nella parabola sopra evocata.
A questo punto è necessario mettere tra le mani del lettore una guida: è ciò che fa Reinhard Pummer, docente emerito dell’Università di Ottawa e modello di un’iperspecializzazione estrema. Infatti il suo saggio è frutto di una vita di studi specifici sui samaritani ed è impressionante per la vastità e puntualità delle informazioni storiche, archeologiche, letterarie, sociologiche, religiose e persino demografiche. Eppure, il ritratto che egli delinea è per molti aspetti coinvolgente, soprattutto per chi – turista o pellegrino – è riuscito a visitare anche la Samaria durante il suo viaggio in Israele, un’esperienza non facile a causa dell’attuale tensione tra Israele e gli arabi palestinesi. Il mio ricordo personale, legato a molteplici itinerari in quell’area in un passato politicamente e militarmente meno rovente, deve necessariamente partire dal cuore della loro fede, il testo sacro, a cui Pummer dedica un’analisi suggestiva.
Si tratta del cosiddetto «Pentateuco samaritano», parallelo alla Torah ebraica, sia pure con varianti proprie, che allora veniva mostrato attraverso una fugace apparizione, solo in alcuni casi e dietro compenso. Oggi, invece, il rotolo è sotto chiave in una cassa di legno e vetro, custodita in una cassaforte d’acciaio e viene offerto in ostensione ai fedeli solo nei sabati delle tre festività di pellegrinaggio, nel Kippur (la solennità penitenziale tanto cara anche ai «cugini» ebrei) e nella festa che commemora il dono divino della Legge, cioè il Pentateuco. Questa Scrittura Sacra è conservata in una sinagoga sul monte Garizim.
E qui entra in scena un altro elemento capitale della fede samaritana, quel monte santo con due cime, l’una di 881 metri, l’altra di 831, incombente sull’antica Sichem biblica e sulla vicina Nablus. Nel dialogo che sopra abbiamo citato la donna samaritana dice a Gesù: «I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Si delinea, così, il contrasto tra le due fedi, l’una legata al Garizim e l’altra al Sion, il colle del tempio gerosolimitano. La replica di Cristo è netta: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… Viene l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni 4, 19-24).
Sul Garizim si sono erette nei secoli sinagoghe samaritane; sulla sua vetta si celebra la Pasqua col sacrificio dell’agnello, a cui assistono anche molti turisti e curiosi esterni alla comunità; lassù si ascende per i pellegrinaggi nelle varie festività e si officiano i matrimoni e i funerali. Sopravvissuti a secoli di storia, a persecuzioni, a discriminazioni politiche e sociali, a conversioni forzate e ad apostasie, questo pugno di persone regge ancor oggi alto il vessillo della loro identità nella convinzione di essere gli unici autentici rappresentanti dell’antico Israele biblico. E, pur con la distanza dell’ebreo quale egli era per nascita, tra gli ammiratori di questa comunità – come si è visto – si era iscritto anche Gesù di Nazareth.