Domenicale, 16 aprile 2023
L’architettura è letteratura. Parola di Leon Battista Alberti
Da che cosa si capisce il successo? Se chiedete a Leon Battista Alberti (1404-1472), la risposta vi lascerà di stucco. Quaglie – il successo, quello vero, si misura in quaglie. Più ne ricevete, più siete famosi e riveriti. Naturalmente, tutto dipende da chi vi fa omaggio dei poveri uccelletti. Se a mandarveli è un marchese, che cerca a tutti i costi i vostri servigi, vuol dire che avete fatto centro. Prima le quaglie, poi gli onori e alla fine la gloria imperitura, la via è spianata. Ludovico Gonzaga, signore di Mantova, di quaglie gliene ha regalate a decine. Non sappiamo se lui, l’altezzoso Alberti, si sia degnato di assaggiarle o se le abbia rifilate al primo venuto. Il risultato di un simile via vai di cacciagione è comunque passato alla storia. Una quaglia dopo l’altra, i progetti albertiani per le chiese di San Sebastiano e di Sant’Andrea, a Mantova, voluti dal Gonzaga, si sono trasformati nei capolavori che tutti conosciamo e ammiriamo.
L’Italia del Quattrocento, quella della grande arte e del lusso, è un Paese contadino. Signori splendidi, come i Gonzaga a Mantova o i Medici a Firenze, si scambiano doni semplici, torte, frutta, cacciagione, senza tanti convenevoli. A Ludovico piace andare a caccia, ed ecco spiegato il rebus delle quaglie, distribuite con larghezza a cortigiani e a forestieri di riguardo.
Del resto, a Battista – il nome Leone lo aggiungerà lui stesso in età matura – il successo importa, e molto. Non la riuscita volgare, per carità, la fama del parvenu. Quello che gli interessa è la gloria che si misura in secoli, e che resiste all’invidia e alla meschinità. Dimenticatevi per un attimo del sommo architetto, del coltissimo umanista, del prototipo dell’uomo universale. Certo, Alberti è stato tutto questo, ma fermarsi alla grandezza del personaggio rischia di allontanarlo, di renderlo estraneo. Ecco perché vogliamo andare in cerca dell’uomo, con la sua ansia di riuscire, di trovare riconoscimento sociale e benessere economico. In questo, nell’ascesa faticosa, cauta, ci appare più vicino, più umano, nonostante la distanza di tempo e di ambiente che ci separa da lui. Se riusciremo a capirne, anche solo un poco, il carattere, anche la sua opera, sterminata e a tratti indecifrabile, ci diventerà più accessibile, quasi famigliare.
Per penetrare lo scrittore Alberti non basta chiedersi cosa abbia composto e come. È indispensabile porsi la domanda di perché abbia scelto proprio quei temi, e li abbia svolti in modo nuovo, inaudito, sperimentale. Ricostruire il suo percorso biografico è un’impresa quasi disperata. E non solo perché le fonti d’archivio sono rare e lacunose. Battista ci ha lasciato un’autobiografia e ha sparso nei propri scritti riferimenti frequenti a sé, diretti o allusivi. Ma è proprio questo il problema. Abbiamo a che fare con un maestro in molte cose. Soprattutto, con un maestro nella rappresentazione di sé stesso. Autorappresentazione come strategia di difesa e, riuscendoci, di successo, così si potrebbe riassumere uno dei lati più moderni della sua vicenda. Viene alla mente l’emblema dell’occhio alato, accompagnato dal motto «Quid tum», «Che cosa, allora?», che Battista ha sparso tra manoscritti e medaglie. Cifra enigmatica, autoritratto svolazzante, l’occhio albertiano, che tanto filo da torcere ha dato ai volonterosi e testardi esegeti, è lì a ricordarci le pericolose, mirabolanti facoltà del suo inventore. Sempre intento a osservare, dipingere, dissacrare, giura di esser capace, «con una sola occhiata (…) di cogliere moltissimi difetti di ogni persona fosse al suo cospetto». Battista sgrana le parole, per farci capire che tra i vivisezionati cadremmo subito anche noi, se solo gli capitassimo a tiro. L’occhio sorvola il mondo, s’inabissa nell’anima, scandaglia il paesaggio interiore, e trova anche ciò che sarebbe meglio non vedere.
La fortuna dell’Alberti? Lenta, faticosa, tardiva, giunta dopo secoli di vera e propria sfortuna editoriale. Tanto grande è Battista quanto sfuggente è il suo profilo. Non che manchino le edizioni, talvolta ottime, o scarseggi la letteratura secondaria: dal 2004 ha preso avvio, presso Polistampa a Firenze, la pubblicazione dei volumi dell’«Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti», la cui commissione è presieduta da Roberto Cardini, con sede presso il Centro di Studi sul Classicismo di Prato. All’Alberti sono altresì dedicate riviste a tema, centri di ricerca d’alto livello, convegni e mostre. Più faticoso, per un lettore di buone letture ma non specialista, era finora farsi un’idea a tutto tondo di uno degli intellettuali più originali e più difficilmente classificabili della cultura italiana. È proprio l’eco tardiva a dimostrarci che vale la pena di leggerlo, questo scorbutico male in vista. Il suo toscano avventuroso e innovativo, testimoniato dalle opere redatte in volgare, è anch’esso meritevole d’essere rivalutato, centellinato, apprezzato. Che l’Alberti sia stato pubblicato e studiato soprattutto negli ultimi decenni è un sintomo d’attualità. Il suo modo di affrontare i problemi dalla “parte del fare”, per risolverli, se possibile, e non semplicemente per enunciarli, lo rende vicino all’impazienza contemporanea. Poco paludato, nonostante la sua sterminata erudizione. Pragmatico, volitivo, sprezzante nei giudizi, ricco di competenze acquisite non solo sui libri ma attraverso l’esperienza, “sul campo”.
Leggere Alberti significa scoprire un Umanesimo sperimentale, dissacratore, attento all’utile non meno che al bello. Ed è una scoperta benvenuta, dopo tanta, alata retorica, che rischia di allontanarci dal fulcro di un’epoca tanto creativa quanto tormentata. Basterebbero I libri della famiglia per far passare l’Alberti alla storia. Nel Paese del familismo, dei clan, degli affetti e dei difetti famigliari, ci voleva evidentemente un genio per imbastire un intero trattato su di un tema scottante e scabroso. Solo un irregolare come Alberti poteva tentare l’impresa, piena di rischi e contraddizioni. Dell’Italia perenne, quella immutabilmente borghese, illusoria, illusa, efficiente e reticente, offre un ritratto la Famiglia albertiana, da leggere e meditare per quello che dice e, ovviamente, per tutto quanto tace. Un altro punto focale del nostro Meridiano è la Trattatistica d’arte, quella dell’Alberti poderoso, noto, risolutivo. Se il Della pittura (offerto nella redazione volgare dell’autore) dà per la prima volta istruzioni pratiche sull’uso della prospettiva centrale, e il Della statua stabilisce un sistema proporzionale di misurazione del corpo umano, L’architettura (o De re edificatoria) raccoglie quanto di più influente, e precorritore, Battista abbia escogitato. Una delle opere più importanti della letteratura del nostro Paese non è... letteraria in senso stretto. Ed è una bella lezione controcorrente, che speriamo questo nostro Meridiano aiuti a rendere più nota e fruibile.