Corriere della Sera, 16 aprile 2023
Su "L’animale della foresta" di Roberto Calasso (Adelphi)
Prima della sua scomparsa, che ancora oggi continuiamo a sentire prematura, Roberto Calasso portò a compimento e predispose per la stampa un gruppo di testi che adesso la Adelphi sta pubblicando. Dopo Ciò che si trova solo in Baudelaire (2021) e Sotto gli occhi dell’agnello (2022), il libro nel quale è contemplato il sacrificio primordiale e perenne dell’agnello, ecco L’animale della foresta, in cui sono commentati tre racconti, scritti da Franz Kafka negli ultimi anni della sua vita, che hanno per protagonisti non gli uomini come nel Processo e nel Castello, bensì gli animali: Ricerche di un cane, La tana e Josefine, la cantante o Il popolo dei topi. «È come se Kafka — osserva a pagina 64 Calasso, mimando la sua prosa — sia voluto scendere in uno strato più largo di ciò che è, là dove gli uomini possono anche essere una presenza superflua. Perché tutto ciò che gli appartiene è già presente». Singolare coincidenza: anche Calasso, negli ultimi anni della sua vita indaga il mondo animale. Ma, al di là di questo, a quale realtà allude uno «strato più largo»? Che cos’è il «tutto che è già presente»?
«La prima pagina delle Ricerche di un cane — scrive Calasso, — è la massima approssimazione che Kafka ci ha lasciato, e la più perfetta, a un profilo di autobiografia». Il protagonista è un cane fra i cani, un individuo comune che neppure desidera o pensa di distinguersi dagli altri cani. È un cane normale. Finché un giorno, vivendo l’anonima normalità dei cani, sente aprirsi nel cuore una falla che gli provoca un istantaneo turbamento. Perché? Nella beata solarità di un giorno che ha superato le tenebre, e tanto ricorda le beatitudini infantili, l’infanzia nella quale un piccolo cane può immaginare eventi straordinari che lo vedranno protagonista, sono apparsi all’improvviso sette cani che cantano. È apparsa, cioè, la musica: il linguaggio, fino a quel momento sconosciuto, più vicino all’invisibile e al mistero. E la falla diventa una voragine, un vuoto immenso nel cuore del cane. Lui, a quel punto — se ne accorge con un brivido di gioia e di sgomento — non è più un bambino. Dunque, non si accontenta di gioire dell’invisibile. Vuole dagli un nome. Diventa un ricercatore dell’invisibile. Ma la parola che potrebbe definirlo non esiste, benché l’abbia sulla punta della lingua. E i sette cani scompaiono.
I topi non amano la musica. Si può dire che nemmeno la conoscano. Loro fischiano, senza attenzione, sono abituati a fischiare, non fanno caso alla qualità dei loro fischi: dunque, è poco probabile che, come avviene nelle Ricerche di un cane, siano emozionati e sopraffatti dalla potenza del canto. Infatti, quando fra loro sorge un topo cantante, Josefine, sono quanto meno scettici, se non addirittura avversari, rispetto a questo canto che potrebbe sollevarli dalla misera vita dei topi.
A loro, che lottano per l’esistenza, una esistenza «dura, inquieta, piena di sorprese, angosce, speranze, terrori», va bene fischiare, e basta.
Josefine, invece, nei momenti in cui il suo popolo è perseguitato, soffre, è immerso nella disperazione, non si rassegna: comincia a vibrare, «come se avesse raccolto tutta la sua forza nel canto», come se esistesse solo il canto, e a lei fosse affidata la «protezione dei buoni spiriti», di un popolo vagante nella ottusità del nulla. Ma i topi, lo abbiamo detto, diffidano di Josefine, non considerano, con la devozione che ella pretenderebbe, la profetessa che vorrebbe dissipare le nubi che ingombrano le loro menti, e salvarli. I topi hanno alle spalle una lunga vita, fondata sulla scaltrezza necessaria a difendersi, sono stanchi. Ci sono voci che dicono: «Il nostro popolo non è solo puerile, è anche in un certo senso vecchio», siamo troppo vecchi per la musica; la sua eccitazione, il suo slancio non si addicono alla nostra pesantezza; stancamente ci siamo ritirati nel fischiare. Rifiutano la salvezza, insomma. E, inevitabilmente, Josefine li abbandona. Lei va fra gli eletti: dove si cantano melodie antichissime. I topi — troppo vecchi per rinascere — rimangono incatenati al tormento della vita terrena.
Anche l’animale che abita La tana è vecchio. L’individuo che si costruisce una tana lo fa perché è sfinito, vorrebbe avere un tetto sopra di sé, sentirsi a casa, al riparo dai nemici che lo circondano. «Tutti gli scritti di Kafka — osserva Roberto Calasso — sono attraversati dalla presenza del Nemico. Ma il suo vero nome si dichiarò soltanto alla fine, con La tana».
Chi sono i nemici? Bisogna dire innanzitutto che l’ideatore della tana ha commesso due gravi errori. Il primo, è stato quello di non aver seguito l’ammonimento della Bibbia che dice: «Non costruire sulla sabbia». Il secondo, è stato quello di voler cedere all’ossessione della difesa, con uno spropositato gigantismo edile: dunque, non una sola piazzaforte ben protetta da pareti di roccia, ma tante piazzeforti dove ammassare il cibo della caccia, chilometri di cunicoli, di corridoi nei quali è possibile disperdersi. E, di conseguenza, molte pareti di sabbia franante, molte buche, molte vie di fuga, ma anche molte possibilità di irruzione dei nemici che, attorno alla tana, sono pronti ad assalirla e, confusi nei granelli della sabbia, una quantità di animaletti «cattivi».
L’animale che voleva isolarsi, mettersi un tetto sulla testa, stremato dalla vita, in un primo tempo, quasi per gioco, aveva pensato a costruirsi un piccolo labirinto. Poi, non gli è bastato. A colpi di muso, migliaia e migliaia, fino a farlo sanguinare, ha dilatato i confini della sua protezione, di questa costruzione sotterranea, insultante e colpevole come la Torre di Babele, fino a decretare il suo fallimento. Perché sì, ci sono stati momenti nei quali ha creduto di essere al sicuro, e quasi felice: i momenti nei quali usciva all’aperto per la caccia, e col bottino rientrava incolume nella tana. Ma, con l’andar del tempo, i nemici non potevano non accorgersi di tutti quei buchi dissimulati nel muschio, sono accorsi richiamati da quei buchi, fanno sentire i loro ululati, circondano la tana.
La realtà è che colui il quale concepisce una tana — e cioè il principale nemico di sé stesso — vorrebbe essere «distante» e però non «separato» dal mondo. E questo non è possibile; è il suo terzo grave errore. Non puoi separarti dal tuo prossimo, nemmeno per gioco; ammassare la carne del tuo prossimo nei cunicoli bui di una tana, fingendo di non sapere che la carne è debolezza e dolore.
È, questa, solo una delle tante suggestioni offerte da L’animale della foresta, un libro nel quale una tensione irresistibile continuamente richiama al presente e all’altrove.