Il Messaggero, 16 aprile 2023
Le navi di Caligola
Chissà Caligola quanto ne sarebbe stato soddisfatto. C’è da scommettere, visto che il terzo, leggendario, imperatore di Roma vide (idealmente, si fa per dire) divorare nella sera del 31 maggio 1944, sotto le fiamme di un furioso incendio, le sue due navi-gioiello capolavoro di estro e sfarzo, concepite per il lago di Nemi e i dorati soggiorni di piacere della sua corte. La distruzione dei due immensi millenari scafi, realizzati durante il regno di Caligola tra il 37 e il 41 d.C., avvenuta all’interno del Museo delle Navi sulle sponde del lago di Nemi, nel cuore dei Castelli Romani, è rimasto per quasi ottant’anni un autentico cold case. Un giallo archiviato sotto le carte di un’inchiesta conclusa in fretta e furia in quell’estate del 44 sulla scia della liberazione di Roma. Ora però un’indagine storiografica smonta pezzo dopo pezzo tutto il sistema di colpe indicate dalla commissione istituita all’epoca, smantellando anche le teorie di responsabilità elaborate nel secondo dopoguerra. E trova la soluzione al caso. Con un finale a sorpresa che neanche Hercule Poirot di Agatha Christie.
INDIZI E COLPE
Un’impresa confluita nel libro L’incendio delle navi di Nemi. Indagine su un cold case della Seconda guerra mondiale (Passamonti Editore), firmato dai due ricercatori Flavio Altamura, una carriera da archeologo al Dipartimento di Scienze dell’antichità della Sapienza, e Stefano Paolucci. «Ad incendiare le navi di Caligola custodite nello storico padiglione progettato dall’architetto Morpurgo e inaugurato da Mussolini il 21 aprile del 1940 per il Natale di Roma, sarebbero state le granate alleate», dichiarano gli studiosi. Ci sono voluti oltre dieci anni di ricerche d’archivio, tra l’Italia e l’estero, per rintracciare tutta la documentazione inedita. Un lavoro certosino. Altamura e Paolucci hanno impiegato tre anni per concretizzarlo nel volume che riscrive un capitolo di storia contemporanea italiana. Il verdetto emesso all’epoca è noto: il rogo era da imputare «con ogni verisimiglianza» a un deliberato atto vandalico dei militari tedeschi che in quei giorni avevano piazzato una batteria di cannoni nei pressi del museo.
«Nel corso degli anni saranno in molti a contestare la versione ufficiale - spiegano i due ricercatori - convinti che i veri responsabili siano stati altri: chi ha incolpato gli sfollati che si erano rifugiati nel museo, chi ha accusato i partigiani che lo avrebbero incendiato in sfregio al dittatore fascista, chi ha puntato il dito contro dei semplici ladruncoli che volevano coprire le tracce dei loro saccheggi». Ma cosa accadde veramente in quelle drammatiche ore? «La nostra ricostruzione sembra scagionare le truppe tedesche - precisano Altamura e Paolucci - L’analisi incrociata delle prove portate a sostegno della loro colpevolezza nel corso dell’inchiesta del 1944 si sono tutte rivelate infondate. Da questo crimine, tra gli innumerevoli delitti di cui si macchiarono in quegli anni, i tedeschi devono quindi essere scagionati. Allo stesso modo, abbiamo valutato tutte le altre piste di indagine, in alcuni casi risalendo all’origine di queste voci. Anche queste possibilità sono del tutto infondate e smentite da numerosi elementi presenti nelle fonti dell’epoca».
LA SOLUZIONE
Rimane in piedi solo una soluzione: «Ad incendiare le navi sarebbero state le granate alleate, indirizzate verso la postazione tedesca, che la stessa sera dell’incendio avevano colpito il museo - affermano gli studiosi - Secondo questo scenario, le truppe tedesche avrebbero una responsabilità solo indiretta nel disastro, avendo piazzato nei pressi del museo la postazione militare che attirò la reazione nemica». Quindi gli alleati diventano i reali responsabili? «Da parte alleata, si sarebbe trattato di un involontario "effetto collaterale" degli scontri: un tragico incidente di guerra avvenuto nel corso della battaglia di liberazione dal nazifascismo».
FOTO E TESTIMONI
Una verità che accende di nuovo i riflettori su queste due navi imperiali dal destino beffardo. Sopravvissute nel fondo del lago per duemila anni, riportate alla luce fra il 1929 e il 1931, e poi distrutte. L’ enigma valeva tutta l’indagine. Gli autori, esperti del territorio dei Colli Albani, hanno messo a confronto diversi indizi. Innanzitutto sono state poste "sotto inchiesta" le fonti ufficiali, le cronache e le testimonianze già note, per passare poi all’esame incrociato di un’ampia mole di documenti inediti rintracciati in numerosi archivi italiani ed esteri. Con sorprese. «Sono state rinvenute - anticipano - le foto eseguite per la commissione d’inchiesta, le lettere informative e le dichiarazioni testimoniali dei custodi del museo, la corrispondenza istituzionale e le carte private del soprintendente dell’epoca, i rapporti degli ufficiali del Governo militare alleato e le denunce pervenute ai vari organi inquirenti di quel periodo». Il momento più emozionante? «Lo studio dei moderni manuali di fire investigation utilizzati in ambito forense, che ci ha letteralmente aperto gli occhi su una serie di dettagli fondamentali che erano passati del tutto inosservati».