La Stampa, 16 aprile 2023
Elogio della Ferrero
Ad Alba, lo stabilimento della Ferrero produce 24 milioni di Ferrero Rocher al giorno nei mesi invernali e 6 milioni al giorno in quelli estivi. Si sente profumo di crema di nocciole in tutta la città e nelle campagne intorno. Sempre. Per Michele Ferrero, il capitalista morale che da quel posto è arrivato in tutto il mondo, era importante portare la festa nella vita degli altri. Il profumo per strada è il primo indizio di una festa in corso. Quando Napoleone disse «Alba è nostra, qui siamo nel migliore e più fertile paese del mondo», le nocciole erano niente: un secolo e mezzo dopo, diventarono l’oro di un impero. La Walt Disney della pasticceria, oggi la terza industria dolciaria al mondo: con le barrette Kinder che produce in due giorni, coprirebbe la Mole Antonelliana. Così è scritto in uno dei primi poster che s’incontrano entrando nello stabilimento di Alba, dove lavorano poco più di 4 mila dipendenti (dei 41.441 totali, distribuiti in 32 stabilimenti in tutto il mondo). Il poster successivo chiede se sappiamo che la fila di vasetti di Nutella prodotti in un giorno equivale alla conferenza della Terra. Dentro, le macchine fanno tutto, o quasi. Sono sofisticatissime: robot con ventose capaci di afferrare cialde sottili di pane tostato, dispositivi a raggi X che controllano se nei biscotti, nelle creme, nei cioccolatini ci siano resti metallici, e se il peso è esatto, e se gli ingredienti sono distribuiti equamente, e se ci sono ammaccature.
«Gli facciamo la radiografia», dice Dorico Mordenti, storico ex dipendente, 40 anni in Ferrero, cuneese naturalizzato albese, entrato come perito chimico e diventato direttore, mentre la lastra (giuro, è una lastra) di un Bready si accende. Dolcetto integro, sano, equo, buono: va all’incarto. Degli scarti non si butta via niente: le cialde difettose vengono riutilizzate in due modi, in parte distribuite ai mangimifici e in parte tritate per ottenere delle praline immesse poi nella crema in modo da renderla più croccante. Gli operai supervisionano. Sembrano tutti felici. Perché lo sono. Al punto primo delle regole che Michele Ferrero, l’imperatore di questo impero anti-imperialista, diede da seguire a tutti i dirigenti dell’azienda, negli anni Sessanta, c’era scritto: «Nei vostri contatti, mettete i vostri collaboratori a loro agio. Dedicate loro il tempo necessario e non le briciole. Preoccupatevi di ascoltare ciò che hanno da dirvi. Non fateli mai sentire piccoli. La sedia più comoda del vostro ufficio sia destinata a loro».
Nella biografia di Ferrero, un suo lungo ritratto in uscita oggi per Salani, Salvatore Giannella ha raccontato soprattutto questo, dell’impresa grandiosa dell’uomo che ha dato al mondo gli ovetti Kinder e la Nutella, i Mon Chéri e i Tic Tac, l’Estathè e i Pocket Coffee: la cura che aveva per i suoi lavoratori; il riguardo paterno, familiare; il desiderio di facilitarli; la vicinanza costante. Erano gli anni Sessanta, l’azienda, ormai consolidata, lavorava a ritmi sempre crescenti da un paio di decenni e Michele Ferrero incontrò il Papa e Aldo Moro che, poco dopo la visita allo stabilimento di Alba, scrisse per Il Giorno un editoriale che s’intitolava “Il bene c’è ma non fa notizia”. Altrove, anzi ovunque, le fabbriche erano posti di alienazione, disumanità, sconforto. Il lavoro era la fine della vita: in Tirar Mattina, Umberto Simonetta raccontava gli ultimi bagordi che i ragazzi milanesi si concedevano per salutare la disoccupazione, avendo piena certezza che lavorare avrebbe messo una pietra tombale sulle feste, gli svaghi, i foulard – «Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più», cantava Jannacci. Erano di Bianciardi e di Elio Pagliarani, che per descrivere la condizione operaia, scriveva: «È nostro ed è morale il cielo che non promette scampo dalla terra, proprio perché sulla terra non c’è scampo da noi nella vita». Il welfare aziendale non esisteva: gli operai, specie se migranti, dovevano essere felici e contenti perché avevano uno stipendio. Fine. Ferrero, eccezione insieme ad Adriano Olivetti, aveva già inventato un sistema di trasporto per tutti i suoi dipendenti: pulmini che andavano a prenderli a casa e li riaccompagnavano a giornata conclusa. Non molti anni dopo, nel 1983, organizzò l’Opera sociale e poi la Fondazione, dove tutt’ora i pensionati dispongono di spazi per fare sport, incontrarsi, ascoltare musica, leggere e continuare a collaborare con l’azienda.
«Io non sono mai andato via», dice Dorico Mordenti, che accompagna i visitatori nei blindatissimi tour nello stabilimento di Alba e un po’ vuole farsi ammirare: se ammiri lui, ammiri l’azienda. «Tra noi vecchi dipendenti c’è un detto: nelle nostre vene scorrono sangue e Nutella», dice. Il punto del welfare di Michele Ferrero non era far affezionare i dipendenti al lavoro, di modo che dimenticassero la vita fuori, come è successo invece nella Silicon Valley. Era un filantropo: era certo che fosse suo dovere fare in modo che i suoi dipendenti fossero felici. L’attaccamento all’azienda doveva essere un effetto secondario di quella felicità. «Ho dovuto tener fuori moltissimi aneddoti perché mi son reso conto che il libro correva il rischio di diventare un’agiografia», ha detto Salvatore Giannella, che ha parlato con dipendenti, familiari, capi, ex capi, politici, giornalisti, ex compagni di scuola. E non ha svelato nessun mistero: Ferrero non mentiva quando diceva, ai giornalisti, di non avere niente di particolare da raccontare, di non essere granché. Era devoto alla Madonna di Lourdes, senza di lei, diceva, nulla sarebbe stato possibile. Tutto cominciò grazie a suo padre Luigi, che nel 1946, con L’Italia che usciva dalla guerra, inventò il pastone di gianduia: buono per la merenda e pure per il pranzo. Da suo padre, Michele imparò che la pasticceria non è elitaria e non è un vezzo: è cura, è gioco, è festa. Amava i würstel, e forse per questo ebbe il coraggio di andare a fare il cioccolato in un posto che ne è patria, nonostante tutti gli dicessero di non farlo. La Germania è ora uno dei Paesi che più ama la Nutella, ma è il solo dove la ricetta è diversa: il dosaggio di cacao è maggiore.
Amava le macchine. Le comprava, le smontava e le rimontava. Disse una volta: «Quando le vedo in movimento, a me sembra che abbiano un’anima, come una persona». Era un socialista a modo suo, ribadiva: «Produco ricchezza da distribuire e così dovrebbe fare la politica». Investiva in tutto, detestava spendere troppo per il vino. Osservava quello che faceva la concorrenza e poi diceva: dimentichiamolo, facciamo altro. È morto il 14 febbraio del 2015. Il giorno prima la Ferrero aveva superato la Nestlé.
Gli piacevano le cose vere, i tempi lunghi. Il caffè nei pocket coffee ha voluto che si facesse in una moka alta otto metri. Forse nemmeno a Napoli c’è una moka alta otto metri. Ma le Langhe sono una terra dal cuore noto e dalla periferia incerta. L’ha detto Giorgio Bocca, aveva ragione.