La Lettura, 16 aprile 2023
Intervista a Brigitte Giraud - su "Vivi veloce" (Guanda)
«Vivi veloce» è la frase trovata da Brigitte Giraud nel libro del critico rock Lester Bangs che Claude stava leggendo, e che lasciò ai piedi del loro letto, la mattina del 22 giugno 1999, il giorno in cui morì. Lei si trovava a Londra da un’amica, sarebbe tornata la sera, lui andò a lavorare come al solito per poi passare a prendere a scuola il loro figlio di 8 anni. Ma quella mattina Claude cambiò leggermente la routine. Invece di prendere la sua placida Suzuki, si concesse la follia di inforcare la moto che il cognato aveva lasciato nel garage della casa appena comprata: una rara e potentissima Honda Cbr 900 Fireblade (Lama di fuoco). Nel tragitto tra la biblioteca musicale di Lione, che dirigeva, e la scuola del figlio, Claude si fermò al semaforo. Al momento di ripartire, perse il controllo del bolide. «Non abbiamo potuto fare nulla», disse verso la mezzanotte la dottoressa del pronto soccorso a Brigitte.
Ventidue anni dopo quella tragedia, scrittrice già affermata, Brigitte Giroud ha trovato il coraggio di lasciarsi condurre al luogo che si voleva evitare, come l’esergo di Patrick Autréaux definisce lo scrivere. E nel 2022 (il 22, come il giorno della morte, è un numero che ricorre in questa storia) Vivi veloce le ha fatto vincere il Prix Goncourt. È un bellissimo libro che parla di Brigitte, di Claude e di un’epoca, la fine degli anni Novanta.
Signora Giraud, lei affronta una vicenda intima e dolorosissima ma uno dei meriti del libro è che oltre al dramma privato dipinge un’era, con i suoi stili di vita e i suoi tic, rivelati dai dettagli. Per esempio quella fissazione tutta francese per le «travi a vista», indispensabili negli annunci immobiliari dell’epoca. Ha trovato naturale associare la dimensione sociale a quella personale?
«Sì, certo. L’aspetto intimo mi interessa solo se è legato al collettivo. La mia vita non conta più di quella degli altri. Quel che conta è vedere come siamo tutti legati. Così ho parlato di me e di Claude e della nostra famiglia ma ho messo le nostre vite in un contesto più largo, sociologico, storico, politico. Perché non veniamo calati su questo pianeta per caso, singolarmente. Dipendiamo tutti gli uni dagli altri. Le poutres apparentes, le travi a vista, corrispondono a quella fase di gentrificazione per cui i controsoffitti venivano smontati da noi trentenni in cerca di autenticità. Ho descritto il canut ristrutturato di Lione, la nostra prima casa, come il segno di uno stile di vita».
Un altro aspetto centrale è la musica. Per lei e Claude il rock era fondamentale, definiva l’identità.
«Ho voluto parlare della nostra passione e raccontare qualcosa che credo riguardasse anche molte persone della nostra generazione. All’epoca il desiderio precedeva l’ascolto di un album, ed era fortissimo. I dischi erano costosi, specie per noi che qualche volta li facevamo arrivare dalla Gran Bretagna, dall’America, dal Giappone, persino dall’Est Europa. Avevamo meno dischi ma li ascoltavamo fino in fondo, centinaia di volte, e li sceglievamo dopo mille riflessioni, perché non potevamo permetterci di sbagliare l’acquisto. Era un altro tipo di conoscenza. Prendevamo queste cose molto sul serio. Oggi mi sembra che il rapporto con la musica sia più facile ed effimero».
Perché questa dedizione, quest’ossessione è così importante?
«Ossessione è la parola giusta. Il libro in effetti ruota intorno all’ossessione di scegliere l’album giusto, il giubbotto di pelle che ti rappresenta, la casa dove sentirti bene, e non ce ne possono essere duemila. Avevamo un legame estetico con il mondo. La cultura era l’unico arricchimento possibile ma era accessibile: si trattava di ascoltare i migliori dischi, leggere i migliori libri, conoscere i registi, viaggiare. Era il nostro modo di dare un senso alle nostre vite. Poi, è arrivato l’incidente, la cosa più totalmente priva di senso che potesse capitare».
L’incidente a Claude è arrivato quando avevate appena venduto il «canut» e comprato una nuova casa, che lei ha desiderato e alla fine ottenuto con grande tenacia.
«Non ho potuto fare a meno di pensare che la tragedia non sarebbe successa se io non mi fossi intestardita a traslocare».
È il primo dei tanti «se» che scandiscono il libro. Perché ha scelto questa struttura?
«È il tentativo di ritrovare un senso, mettere in fila una serie di coincidenze straordinarie. Non giungo ad alcuna conclusione ma a posteriori c’erano tantissimi segnali che ho voluto ignorare. E quel che è successo a Claude e a noi è il risultato di una quantità di micro-avvenimenti imprevisti. Se non avessi voluto vendere l’appartamento. Se non mi fossi intestardita a visitare la casa successiva. Se mio nonno non si fosse suicidato nel momento in cui avevamo bisogno di soldi. Se non avessimo avuto le chiavi della casa in anticipo. Se mio fratello non avesse così potuto mettere la sua moto nel nostro garage prima di partire per le vacanze...».
E se la Honda 900 Cbr Fireblade fosse stata riservata solo alle gare anche in Europa, come in Giappone...
«Le riviste specializzate, che mi sono messa a leggere dopo l’incidente, la definivano “inguidabile”. Ho pensato di andare a conoscere l’ingegnere giapponese che l’ha progettata, Tadao Baba, un genio autodidatta che riuscì nell’impresa di produrre una moto da strada con le prestazioni di un bolide da gara. Poi ho anche pensato di fare causa alla Honda, ma non avrebbe risolto niente».
Al fatto che la moto non fosse venduta in Giappone lei dedica molte pagine.
«Perché è una circostanza che evoca molte cose. Da un lato, mi permette di parlare della globalizzazione, degli accordi commerciali, di quali cavilli possano nascondersi dietro al fatto che un governo proibisce la vendita di un suo prodotto ai suoi cittadini, perché troppo pericoloso, ma altri governi consentono ai propri cittadini di acquistarlo. Dall’altro, forse non è un caso che questa moto fosse desiderata soprattutto in Francia, Spagna, Italia, Paesi che hanno una storia di virilità associata ai motori. E mi interessava indagare anche su questo aspetto sul vivi veloce, muori giovane, citato da Lou Reed e attribuito a James Dean».
Come mai si è decisa finalmente a raccontare questa storia?
«Ci ho sempre pensato, in tutti questi anni ma non mi sentivo pronta, anche da un punto di vista letterario. Volevo essere all’altezza. Poi ho finito per cedere all’assalto dei promotori immobiliari. Ho venduto la casa, quella che avrebbe dovuto essere la nostra ed è stata solo mia e di nostro figlio. Quella è stata la molla. Quando questo genere di eventi attraversa la tua esistenza, ti trovi in un rapporto di sottomissione. Sei dominato, e le parole che senti dire attorno a te, dagli amici, i famigliari, il prete ai funerali, ti sembrano totalmente folli. Scrivere non è terapeutico, no. Però è un modo di ribaltare il rapporto di sottomissione e dominazione. C’è una sola cosa che sei in grado di padroneggiare, e sono le parole che metti insieme per costruire le frasi».