Corriere della Sera, 15 aprile 2023
Su "Annalena" di Annalena Benini (Einaudi)
«Si può vivere tutta la vita senza mai sentire una vera scossa?» si domanda Annalena Benini nel suo nuovo libro Annalena (Einaudi, dal 18 aprile), dove l’Annalena del titolo è Annalena Tonelli, missionaria laica, pensatrice, filosofa, insegnante di letteratura inglese e africana, storia e geografia, nata a Forlì nel 1943 e uccisa in Somalia nel 2003. Annalena Tonelli che ha trascorso gran parte della vita in Africa a costruire scuole, ospedali. Curare la tubercolosi, lottare contro l’infibulazione.
La strada per conoscere questa donna eccezionale parte appunto da Forlì, dalla famiglia d’origine. Proprio laggiù, in quella famiglia, c’è anche lei, l’altra Annalena, l’autrice del libro (la madre di Annalena Tonelli era cugina di suo nonno). E dunque questa non è solo la storia di Annalena Tonelli. Annalena è la storia di tante donne, il viaggio di conoscenza del mondo fuori, e del mondo dentro Annalena — tutte le Annalena del libro. «Si può vivere tutta la vita senza mai sentire una vera scossa? (…) Oppure un giorno si apre una fessura, da qualche parte, e da quella fessura passano le scosse». Quel giorno per l’autrice arriva in età adulta, a pochi mesi dalla nascita del secondo figlio. Ricoverata in ospedale per una grave polmonite, lei si rivolge a Dio. Non prega, non supplica, non diventa fervente cattolica, tantomeno discetta di esistenza di Dio, piuttosto: «Non ho mai messo in dubbio che lui mi stesse ascoltando», scrive, stabilendo la misura di un io narrante normale che ragiona su di sé, chi è stata, chi è, chi fa ancora in tempo a essere, quali i suoi gesti di bontà, le piccolezze, la sproporzione tra «i grandi desideri e i piccoli desideri».
C’è un istante preciso — simbolico, letterario: quando in ospedale le praticano un buco sulla schiena per far uscire l’acqua dai polmoni, e lei vede «un’acqua di un colore schifoso, mischiato al sangue, e ho detto: addio, brutta stronza che vuoi ammazzarmi». Citando Donald Winnicott, l’autrice ricorda che una donna è tre donne insieme: se stessa, sua madre e la madre di sua madre. Molte di più — pare aggiungere nel rievocare l’infanzia e la prima giovinezza a Ferrara, poi Roma, l’arrivo a Roma. Questo il movimento del libro e del pensiero: rimpicciolire in una moltitudine interiore, disperdere l’io, e dare corpo, individualità alla moltitudine esteriore, che è l’insegnamento più grande della cugina missionaria, quella cugina di cui lei porta il nome ma non solo lei (la prima moltiplicazione, magnifica dispersione del sé). In famiglia di Annalena ce ne sono altre: la zia novantenne, sorella del nonno; la cugina di primo grado, figlia del fratello della madre, e la nipote diretta di Annalena Tonelli, figlia della sorella Viviana, quasi coetanea dell’autrice. Una Annalena, quest’ultima, che ha conosciuto la zia di cui era la prediletta — nel caso il gesto di scrivere questa storia potesse essere scambiato per atto di mitomania.
Nella smentita di predestinazione (non era lei la prediletta), Benini toglie enfasi al racconto, rende laico, umano il suo desiderio di conoscenza — nessun passaggio di testimone con la cugina missionaria, nessuna ascesa al divino. Della cugina scrive: «È stata un incendio di umanità e di intelligenza, di comprensione del dolore e dei bisogni di ciascuno. Migliaia di persone, ma una per una». Dove conta quel «una per una», a differenza delle organizzazioni umanitarie il cui errore è «non considerare l’individuo, non considerare quel preciso essere umano, ma una folla indistinta di poveri e una folla indistinta di simboli del bene che non fanno davvero il bene di nessuno» — il pensiero di Annalena Tonelli.
Il libro allora si allarga a una riflessione più ampia: alla possibilità di amare, alla vocazione che non è solo quella religiosa. Raccogliendo testimonianze di chi ha conosciuto direttamente Annalena Tonelli, leggendo le lettere, disubbidendo al suo desiderio di silenzio, l’autrice procede in uno scavo di scoperta delle cugina, di se stessa, e del femminile: le nonne, la madri, la sua e quella elegantissima di Annalena Tonelli così diversa dalla figlia, arrivando a Simone Weil, Virginia Woolf, Etty Hillesum, Emily Dickinson, e altre ancora.
I familiari della scrittrice, i rapporti personali fanno da contraltare di simmetria a quell’umanità «uno per uno» di Annalena Tonelli. S’invertono i tragitti: se nel racconto intimo l’autrice spersonalizza, tutti in famiglia per errore si chiamano Silvia, come la sorella, Silvia anche il cane, fuori, la moltitudine di sconosciuti — bisognosi, malati, poveri — acquista corpo e storia, perde il valore di simbolo. Per tanto le due indagini, su Tonelli e su se stessa, procedono parallele, a illuminarsi a vicenda, a sbilanciarsi. Benini esce dall’ospedale, ritrova i figli, il maschio ormai abituato a prendere il latte dal biberon («mi hanno dato una pasticca per mandare via il latte che ho quindi tolto a mio figlio all’improvviso: è scomparsa sua madre ed è scomparso il latte, e nessuno poteva spiegargli niente, perché aveva dieci mesi»). Dopo la lunga convalescenza, sempre la scrittrice deve riaprirsi al mondo fuori, quel mondo che la investe, eccola la scossa: urla, luce, freddo, bambini, coriandoli — è Carnevale.
Annalena è un libro sorprendente perché capovolge le posizioni, e cambia le proporzioni. È un libro profondamente femminista — ma in un suo modo originale: l’idea che ogni donna possa essere differente e perciò libera nella sua vocazione. Un femminismo pari alla misericordia di Annalena Tonelli: occuparsi dell’umanità un essere umano per volta. Un libro femminista che disegna una genealogia di donne che va a concludersi con un uomo — gesto struggente, atto d’amore — ovvero il padre che in ospedale veglia la figlia. Perché il femminismo, al pari dell’umanità, della maternità, è una disposizione, un’attitudine trasversale alla portata di chiunque, non un progetto, un’ideologia di pochi, è l’amore indipendente da Dio, come scriveva Annalena Tonelli, quel «uno alla volta» (come Una persona alla volta di Gino Strada). E allora: «Poiché sono stata violentemente scossa da quella Annalena che non sono io, e da tutte le conseguenze del suo pensiero e della sua vita sulle vite degli altri giù giù fino alla mia, e poiché scrivere rende la mia codardia più coraggiosa, ho deciso di smettere di essere una fodera estiva alle poltrone».