La Lettura, 15 aprile 2023
Don Winslow come Virgilio
A pagina 7, in esergo. Arma virumque cano... Canto le armi e l’uomo. A pagina 9, prologo. Un tal Danny Ryan, gangster di stirpe irlandese, inginocchiato nel deserto Anza-Borrego, California, anno 1991.
In che punto dialogano, trovano relazione, generano una letteraria scintilla il primo verso dell’Eneide (e, lo vedremo a breve, i classici greci e latini) e la scena di un criminale accasciato sulla sabbia, una pistola puntata alla nuca, che sta per essere inondato di benzina e bruciato vivo dai narcotraficantes messicani?
Sarà forse perché il finale dell’Odissea è la scena più riuscita della pulp fiction universale?
«Ma certo che sììì», ride Don Winslow, e ridendo alza come per un brindisi una tazza di caffè col marchio San Diego sulla ceramica. È la città vicina alla sua casa tra le colline, dalla quale si collega con «la Lettura», ore 9 al fuso della West Coast, giovedì 30 marzo scorso. Lo sterminio vendicativo di Ulisse pulp e noir: «È esattamente così, l’ho sempre pensato. È come il finale del Padrino. Soprattutto, è il punto dal quale è partito tutto il mio progetto di lavoro».
Riassumendo. Una trilogia crime. «Ultima opera», per sua ammissione, di un colosso mondiale del genere. Città in fiamme, anno 2022. Città di sogni, in uscita il 18 aprile (in contemporanea negli Stati Uniti e in Europa). Città in rovina: «È già scritto, sarà pubblicato l’anno prossimo». Tutti editi da HarperCollins. Il primo romanzo ricalca l’Iliade. Gli altri due l’Eneide. «Ho impiegato quasi trent’anni per scrivere questi libri. Li prendevo e li lasciavo. Nel frattempo facevo altro. A volte ho dubitato delle mie capacità nel maneggiare una materia simile, della mia abilità nel completare la sfida che mi ero imposto: che era di scrivere una trilogia crime, che potesse vivere da sola, in totale autonomia, ma che seguisse la traiettoria in particolare dell’Eneide, ma anche dell’Iliade, dell’Odissea, della tragedia greca. Amo immensamente questa letteratura».
Eccolo, allora. Enea-Danny Ryan. Primo romanzo: la guerra tra mafia italiana e irlandese nel Rhode Island, Costa Est. Enea-Danny diventa suo malgrado capo. La sua fazione è sconfitta. Allora parte, scappa con pochi compagni. Inseguito dall’Fbi e dai mafiosi. Tutti lo cercano. Ognuno ha un motivo per ammazzarlo. Danny-Enea coast to coast. Fino in California, a Hollywood. Con un padre malconcio e ubriacone (Martin Ryan-Anchise) e un figlio piccolo (Ian-Ascanio) sui sedili posteriori di un’auto in fuga. Eneide on the road . Virgilio sulle highways. Danny incontrerà sua madre (Madeleine-Afrodite), dea milionaria e potente che vive a Las Vegas. A Los Angeles (Cartagine) avrà una storia d’amore intensa e tragica con una splendida attrice (Diane-Didone).
A questo punto, decrittate le più semplici corrispondenze, sarebbe legittimo il dubbio: non c’è il rischio che tutto questo produca, alla fine, una paccottiglia da riciclo post-moderno?
Don Winslow ha affrontato la sfida fondando il suo lavoro su tre colonne. Lo studio, feroce e intenso. La disciplina letteraria. E infine una teoria poetica, che ruota intorno a un concetto: l’«equivalente contemporaneo».
«Ho studiato latino per quattro anni nella high school. Mi interessava la lingua e avevo un insegnante eccezionale. Ho letto Virgilio in latino prima che in inglese». E questa è la particella primordiale. «Il vero studio dei classici l’ho iniziato a quarant’anni. E non è stata solo questione di leggere i testi, ma di educare me stesso, da autodidatta, su cosa siano davvero, cosa rappresentino e cosa abbiano rappresentato. Ho lavorato su libri di critica e di storia. Ho frequentato corsi universitari online sull’Eneide, l’Iliade, l’Odissea. Ho incrociato molte traduzioni. La questione vera è che questi sette-otto anni di lavoro sono stati uno straordinario divertimento, alimentato dal piacere della splendida poesia. Oggi leggiamo i classici in maniera troppo veloce, ma se rallentiamo, e in particolare se leggiamo a voce alta, si rivela una bellezza sconvolgente. E poi, pensate all’Orestea: un uomo torna a casa dalla guerra; la moglie lo incolpa per la morte della figlia; la donna ha un amante: uccidono il marito nel bagno. Il figlio torna a casa; scopre come è stato ucciso il padre; uccide la madre e il suo amante... Questa è, definitivamente, letteratura noir». In un filo narrativo laterale di Città dei sogni, Winslow replica senza il minimo scarto la trama di Eschilo nella storia della famiglia Moretti, gli italoamericani che hanno vinto la guerra di mafia che apre la trilogia.
Quando la banda di malviventi irlandesi approda in California, due compagni di Danny Ryan scoprono che a Hollywood stanno girando un film su quel conflitto criminale. Loro sono i veri superstiti. Fiutano opportunità di lucro. Avvicinano il regista. Offrono la loro conoscenza reale dei fatti per la sceneggiatura. Con questo gancio, iniziano un’estorsione. Il meccanismo, alla fine, coinvolge anche il loro capo, che si inserisce nel film come partner/produttore. In una scena cruciale, Danny Ryan, entrando negli studios durante le riprese, ritrova il suo vecchio quartiere, i suoi compagni, suo padre, e se stesso nell’attore che lo interpreta: si perde «nella stranezza di vedere la propria vita replicata, ma più vera del vero».
Riflette Don Winslow: «Pensiamo all’Eneide, a quando Enea entra nel tempio di Giunone a Cartagine, dove scopre le raffigurazioni della guerra di Troia, e a un certo punto trova anche sé stesso». Sono i versi 441-493 del libro I, quelli in cui compare l’immortale sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (in questo verso, c’è anche la pietas che Winslow ha provato a infondere nei suoi personaggi maggiori). Comunque: «Quale poteva essere l’equivalente contemporaneo dell’episodio dell’Eneide? In questo caso, forse, è stato fin troppo facile. Mi sono detto: ma certo, un film».
L’esempio rende l’idea della sfida che lo scrittore s’è autoimposto. Una totale conformità alla struttura del sottotesto virgiliano. Cornice dai limiti inviolabili. Binario senza deroghe, per forzare una nuova frontiera del noir. Dentro la fedeltà ai classici, si genera l’autonomia dello sviluppo. «Lo ha fatto anche Virgilio con Omero, no?». A rifletterci, assomiglia più alla sfida di alcuni poeti del Novecento che hanno affrontato la metrica antica. Come Franco Fortini, che nel 1957 si cimentò con la forma più blindata della poesia provenzale, la sestina: per sperimentare se il linguaggio calato nella gabbia più restrittiva della tradizione potesse provocare esplosioni di senso. Il modello come cilicio per la creatività.
In Città di sogni (altro esempio, ma ce ne sarebbero decine) si incontra un inseguitore di Danny Ryan, un mafioso italiano che lo cerca per ucciderlo, Chris Palombo: «È modellato su Ulisse, attraversa tutta la trilogia. A un certo punto mi sono reso conto che i due personaggi stavano seguendo un percorso parallelo in scansione troppo ravvicinata. Era pericoloso per la mia struttura, quindi ho dovuto separarli. Ho pensato: Calipso». Ecco un altro «equivalente contemporaneo».
Chris resterà intrappolato/invaghito in casa di Laura, incontrata per caso, per strada, istruttrice di yoga, guaritrice, incantatrice di strabordante potenza sessuale. L’isola di Ogigia reincarnata in un ranch vicino a Lincoln, Nebraska. Che è un pure recondito tributo a Bruce Springsteen («Forse il più grande poeta americano», azzarda Winslow), il cantautore che nel 1982 intitolò un Lp e la sua title track allo Stato del Midwest.
Proprio Springsteen, nel 1995, si propose un’operazione poetico/musicale che accende altri punti di contatto con la trilogia di Winslow. Riprese un classico, Furore di John Steinbeck, il libro della grande depressione pubblicato nel 1939, e ne fece la traccia dell’album The ghost of Tom Joad (protagonista del romanzo). Sempre di viaggio da Est a Ovest si tratta. E qui la densità dei sottotesti s’amplifica, s’addensa, s’approfondisce.
Il viaggio di Enea, coast to coast nel Mediterraneo in fuga dalla guerra, per salvare la tradizione (il padre) e fondare il futuro (del figlio). Il viaggio di Tom Joad, coast to coast sulle grandi autostrade, migrazione per povertà e disperazione. Il viaggio di Sal Paradise, alter ego di Jack Kerouac in On the road (1951), coast to coast in macchina e in autostop per vivere la libertà. Dal mito fondativo della cultura classica latina, al mito fondativo degli Stati Uniti. Quanto e come interagiscono, nei suoi ultimi romanzi, questi testi e queste tradizioni?
Don Winslow sorride e sorseggia un po’ di caffè: «Tutto questo è stato profondamente nella mia mente. Quello da Est a Ovest è sempre un viaggio di sopravvivenza, di cambiamento. Dettato da un’alternativa brutale: successo, o morte. È sempre verso Ovest, credo perché è là che tramonta il sole. È un tema molto ampio, sin dal suo punto costitutivo: seguendo la rotta di Enea, come ho fatto, si percorrono le migrazioni della civiltà occidentale. Ma io ero attratto soprattutto dall’idea di lavorare sulla versione americana. Nella realtà e nella mitologia dell’America, andare a Ovest è il grande viaggio. Un percorso di libertà: per reinventarsi, in una certa epoca per fuggire dagli slum delle metropoli della East Coast. Per avere spazio, terra, possibilità di movimento».
Fino a qui, siamo a Enea e Tom Joad: «In un momento successivo, le grandi strade americane, le magnifiche highway, che io amo in modo assoluto, per quelli della mia generazione sono diventate paesaggio di un’altra mitopoiesi, con Kerouac. Per tutto questo insieme, ho sentito una fortissima spinta a condurre il mio protagonista in questo viaggio americano: di re-invenzione, speranza, libertà. E infine è successa una cosa inaspettata. All’improvviso, un giorno, circa a metà della scrittura del secondo romanzo della trilogia, ho compreso che in questo universo letterario, culturale e storico, c’era dentro anche la mia personale migrazione».
Una sorta d’epifania: «È come se fossi rimasto intrappolato in una totale mancanza di coscienza di me stesso, ma poi ho realizzato: sto scrivendo di me, questo è il mio viaggio, la mia storia». Il percorso di Enea e di Ulisse, di Tom Joad e di Sal Paradise, e infine di Danny Ryan, è stato anche il viaggio di Don (Winslow). Iniziò nel 1970.
«Ho lasciato la East Coast quando avevo 17 anni. Non c’era più niente da fare per me, nessuna opportunità di lavoro. Mi sono spostato nel Midwest, e fu uno choc. Là puoi sempre contemplare un orizzonte maestoso, aperto a 180 gradi. Ero cresciuto in un piccolo paese di pescatori, molto povero. Bastava fare 5 miglia ed eri già fuori città. La mia migrazione, alla fine, mi ha portato in California. Ero un investigatore. Andai lì perché c’era tanto lavoro. Me ne sono innamorato, ricordo ancora adesso in ogni minimo dettaglio la prima volta che ho percorso la Pacific Coast Highway. Comunque, ho passato più di vent’anni vagando. Senza un padre, ma con una moglie e un figlio piccolo. Eravamo una famiglia che cercava solo di inventarsi una vita. Vivemmo in piccoli hotel per tre anni, perché da investigatore non potevo sapere dove un caso mi avrebbe portato, né quanto sarebbe durato: perciò abitavamo in albergo a Los Angeles, San Diego, Orange County, San Francisco. Esistenza errante. Solo abbastanza tardi, nell’elaborazione di Città di sogni, ho avuto piena consapevolezza che per molti versi stavo narrando il mio stesso viaggio nella California del Sud».
Nel secondo verso del poema, Enea è profugus; la storica versione di Luca Canali traduce con «esule».
All’epifania dell’(auto) riconoscimento esistenziale corrisponde, nella biografia dello scrittore, un’illuminazione creativa. Quando arriva in California, Winslow aggancia il livello stilistico che determina la svolta radicale della sua carriera: «So di essere andato anche io in California per re-inventarmi. Avevo scritto all’epoca cinque o sei romanzi. La mia carriera era inerte. La mia scrittura era piatta. Io mi annoiavo a scrivere, non oso immaginare quanto potessero annoiarsi i miei lettori: e lì invece iniziai a scrivere in modo completamente diverso. Cambiai gli argomenti, modificai la prosa, si rivoluzionò completamente il mio stile: ero abituato a lavorare in modo molto tradizionale, io narrante esterno, terza persona al passato. Iniziai a usare il presente, soprattutto. E fu un processo esattamente legato al mio essere in California. Superati i quarant’anni sono riuscito a sostenermi col lavoro di scrittore, e a cinquant’anni ho avuto un primo successo anche economico. Allora abbiamo comprato questa casa, da dove ora sto parlando».
Lo scrittore alza un attimo lo sguardo alla finestra: «Che ci crediate o no, qui sta nevicando! Comunque, anche Danny, nel terzo libro, troverà una sua stabilità».
Il big bang dell’immaginario mitologico greco-romano continua a generare reincarnazioni. Enea viene trascinato sulle autostrade dell’american dream anche per interrogare la cultura occidentale sulla consistenza di quel sogno. Ogni passo, nel continuo andare a Ovest, alimenta una precaria danza tra fiducia e disperazione.
La domanda in due versi di Springsteen: «Is a dream a lie if it don’t come true? Or is it something worse?» («Un sogno che non si avvera è una menzogna? O è qualcosa di peggio?», The river, 1980).
Risposta di Winslow: «La California è veramente un posto schizofrenico. Aleggia sempre questo ottimismo, si vive la sensazione che ognuno possa rifarsi una vita; ma allo stesso tempo c’è la disperazione di essere arrivati at the end of the line. Perché quando approdi alla costa della California, la strada è finita. Non c’è altro posto dove andare. L’orizzonte illimitato della spiaggia è la paradossale, suadente rappresentazione della fine. Tutti approdano con un sogno. Per pochi si realizza. Ma restano lì: e si impasta così nell’aria il senso della frustrazione. L’infinita eco del “now what?”. Ho attraversato tutto lo spazio fisico fino al confine ultimo; ho ripercorso la storia della migrazione americana fino al punto finale; ho incarnato la mitologia del viaggio fino al limite estremo... e ora dov’è il cambiamento? Dov’è il sogno? Proprio là dove la strada termina, con ironia, e con dolore, si trova l’industria globale della fabbricazione dei sogni e dei miti. Attenzione però, perché sempre in quel punto terminale del viaggio, si rintraccia anche l’origine del romanzo noir americano classico».
Don Winslow rende omaggio anche a quest’altro universo immaginario. Accade verso la fine di Città di sogni. Danny Ryan deve strapparsi via da Los Angeles-Cartagine. Diane-Didone morirà suicida. L’«equivalente contemporaneo» della spada di Enea sono una bottiglia di vodka e flacone di valium. La forza della trama, a questo punto del racconto, ha già iniziato a picchiare col ritmo accelerato che è il marchio supremo del Winslow narratore. In questa scansione, sta incastonato il tributo.
Danny entra al Biltmore Hotel. Citazione esplicita: «È un pezzo della vecchia Los Angeles, quella di Raymond Chandler... Elizabeth Short, nota come “Dalia Nera”, fu vista per l’ultima volta nell’atrio del Biltmore». Alla Black Dahlia è dedicato il capolavoro di James Ellroy del 1987. La menzione non può essere casuale. Segna l’appartenza a una tradizione. Pillola di stima per l’altro gigante del noir contemporaneo. Entrambi sono legati a quell’origine: «Le storie western — riflette Winslow – si esauriscono quando completano la loro parabola verso il West e approdano in California. Ritrovandosi alla fine sulla spiaggia, i romanzi western non possono più raccontare storie di cowboy. E così: i cowboy diventano investigatori privati; gli sceriffi, poliziotti; i rancher, gangster. Dashiell Hammett e Chandler inventano il noir americano classico. Che però, guardate bene, continua a ruotare intorno allo stesso codice morale del romanzo e del cinema western».
Nella bibbia dell’hard-boiled, La semplice arte del delitto (1950), Chandler scrive: «Down these mean streets a man must go who is not himself mean» (Queste strade corrotte deve percorrerle un uomo che non sia corrotto egli stesso). «Pensiamoci – esorta Winslow – avrebbe potuto anche scrivere “in questi canyon corrotti, deve cavalcare un uomo che non sia egli stesso corrotto”. Funziona alla perfezione. Anni fa, in Francia, mi chiesero di introdurre una proiezione di Dirty Harry (in Italia, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, 1971, ndr), e dissi al pubblico: “Cercate di guardare questo film non come un poliziesco, ma come un western, vedrete che è la stessa cosa”. E infatti il finale di Dirty Harry è esattamente lo stesso di High Noon» (Mezzogiorno di fuoco, Oscar a Gary Cooper come miglior attore, 1952).
Da Virgilio, a Chandler, l’ultimo Winslow si svela così maestro di intarsio metaletterario. La forza della trama e dell’azione è garanzia di compattezza. Permette la fluttuazione ininterrotta tra generi, epoche, riferimenti, tradizioni. E formule: inchiodate come gemme negli snodi narrativi. Accade nel finale. Danny ha lasciato Los Angeles, direzione Las Vegas. Viaggia solo, in auto, nel deserto. Carica una ragazza che fa l’autostop. Ascoltando la radio, le dice: «Io sono fan di Springsteen». Classe operaia. East Coast. Ma adesso è perduto nel West. Danny la accompagna in una comune. Una miniera abbandonata. Baracche di legno e lamiera. È stanco. Si ferma. Prima della notte, la ragazza gli offre un fungo allucinogeno. Danny accetta. Mastica. Manda giù. La narrazione si condensa in una formula: Introibo ad altare dei.
Era l’apertura della messa cattolica in latino fino agli anni Sessanta. È un verso del Salmo 42. Anche Art Keller, protagonista de Il potere del cane, recita in latino all’acme del prologo del romanzo: In nomine patris... E anche «il potere del cane» è un verso del salmo 21 (nelle traduzioni inglesi, non in italiano). Da dove nasce un’attrazione così persistente per il linguaggio biblico?
Racconta Winslow: «Ho avuto un’educazione cattolica, la messa in latino negli Stati Uniti me la ricordo. La Bibbia, nella cultura occidentale, è sempre evocativa. Entrambi i romanzi, Il potere del cane e Città di sogni, ruotano intorno alla ricerca di redenzione. Così, per un’osmosi naturale, quel linguaggio è entrato nel corpo della scrittura. Quella formula contiene anche un sottile rimando a James Joyce (Buck Mulligan, con intento di parodia, nella prima scena dell’Ulisse declama Introibo ad altare dei, ndr). E poi, anche se non voglio enfatizzare questo aspetto, la scena si svolge quasi come un sacramento: la ragazza appoggia il fungo sulla lingua di Danny e lui lo ingoia nella speranza di ottenere una conoscenza, un sollievo, una guarigione, una pausa dal peso delle tragedie di cui si sente responsabile». Nello stato allucinato dallo stupefacente, Danny incontra le anime dei suoi morti. «Certo, non potevo fargli passare il fiume Stige. Ma seguendo l’Eneide, questo doveva accadere: così la ragazza-sibilla, con il fungo, permette a Danny di fare il viaggio nell’Ade». Catabasi per via d’allucinazione, nel deserto californiano di Anza-Borrego.
Lo percorre anche Don Winslow, in auto. Il viaggio del romanzo è anche esperienza personale e familiare. Costante, a cadenza regolare: «Ogni sei mesi, da Est a Ovest, e viceversa, io e mia moglie attraversiamo gli Stati Uniti in macchina. È la cosa che più mi piace fare. Ogni tanto la provoco: “Vendiamo la casa e viviamo in viaggio sulle highway”. Non lo faremo; ma io lo farei. Perché? La libertà. Nel West e nel Midwest, gli enormi spazi aperti. E poi fermarsi nelle cittadine, parlare, scoprire. I bar, i diner. Tutto questo per me ha un fascino senza fine. Per la maggior parte del tempo è mia moglie che guida, io sto dalla parte del passeggero. Qualche tempo fa, abbiamo passato un anno veramente complicato. La casa in ristrutturazione. Un fratello di mia moglie con un problema di salute piuttosto serio. Io avevo appena finito il lavoro per il film Savages (Le belve, romanzo del 2010, opera di Oliver Stone del 2012, ndr). Eravamo davvero stremati, a livello fisico, emotivo e psicologico. In quella situazione ci siamo messi in macchina per il viaggio. Stavamo attraversando lo Utah, in un tardo pomeriggio. Io alzo gli occhi e alla mia destra vedo una catena di colline. Dietro, una tempesta con i lampi. Ma il cielo non è del tutto chiuso e poco distante splende anche il sole. In quel momento, proprio sul crinale delle colline, galoppando appaiono due cavalli, uno bianco e uno nero, stagliati su quel fondale di sole, tempesta e lampi. Una delle scene più strane e più belle che abbia visto in vita mia. Mi sono girato verso mia moglie e le ho detto: “Staremo bene”, e lei anche ha guardato da quella parte. Lì dentro c’è tutto. Perché viaggiamo, perché attraversiamo l’America in auto: per momenti come quello».