La Lettura, 15 aprile 2023
Nero Wolfe e Archie Goodwin
Ci sono due tipi di detective. Quelli che studiano l’impronta sul bicchiere di cristallo e quelli che il bicchiere di cristallo lo mandano in frantumi assieme al resto della cristalleria. Sherlock Holmes (primo tipo) deduce. Philip Marlowe (secondo tipo) seduce. Discorso uguale per Hercule Poirot e Sam Spade.
I detective del primo tipo sono di scuola inglese, gente di pensiero che risolve enigmi. Quelli del secondo tipo sono di scuola americana (la prestigiosa hard boiled school e derivati), gente d’azione che disbosca la giungla d’asfalto.
Poi c’è Nero Wolfe, detective del terzo tipo (alla fine vedremo perché) e che è nato esattamente centotrenta anni fa, il 17 aprile del 1893, a Trenton, New Jersey. Il suo autore, Rex Todhunter Stout, nacque sette anni prima (a Noblesville, Indiana) e morì nel 1975. Wolfe è ancora vivo. Stout fu un enfant prodige. Non aveva ancora sei anni e aveva già letto due volte la Bibbia. Da grande voleva fare lo scrittore. Ci provò con un paio romanzi di taglio sartoriale, poi capì che aveva «la stoffa del narratore, ma non quella del grande romanziere». Passò al giallo nel 1934 con La traccia del serpente (Fer-de-lance in originale), la prima avventura di Nero Wolfe. Seguiranno una settantina tra romanzi e racconti.
Stout era genio e regolatezza: «In tutta la mia carriera di scrittore ho iniziato ogni romanzo il 10 o il 12 di gennaio e l’ho finito in 39 o 40 giorni. Il resto dell’anno leggevo, discutevo, giocavo a scacchi e facevo un sacco di altre cose». Nel 1964 Stout, ormai famoso, intervistò per «Mademoiselle Magazine» John le Carré, fresco reduce del successo mondiale di La spia che venne dal freddo, e gli chiese come procedeva alla revisione delle successive stesure di un suo libro. «Sarebbe più corretto dire che io riscrivo», replicò l’inglese. Stout insistette: «La spia che venne dal freddo è un romanzo di 70 mila parole. Quante erano nella prima bozza?». «Circa 120 mila» fu la risposta. Stout continuò: «Quante frasi stampate della Spia sono esattamente uguali a quelle della prima stesura? Metà?». «Oh, no», disse le Carré. «Molto di meno. Quasi nessuna». Stout, che sfornava un romanzo in quaranta giorni e poi si dava alla pazza gioia fino al 10 o 12 gennaio dell’anno seguente, rimase colpito, ammirato e forse un po’ preoccupato dal modo di procedere di le Carré. Lui lavorava in tutt’altra maniera, ma i romanzi di Wolfe, pur se scritti senza ripensamenti e senza mai voltarsi indietro, erano e restano piccoli grandi gioielli narrativi.
Stout dotò Nero Wolfe di lontane ed esotiche origini montenegrine e di genitori illustri ventilando, senza mai affermarlo fino in fondo, che Wolfe era il figlio illegittimo di Sherlock Holmes e della famosa cantante lirica Irene Adler (personaggio che compare nelle storie di Conan Doyle).
Quando gli chiesero come gli erano venuti in mente due personaggi straordinari quali Wolfe e il suo aiutante Archie Goodwin (i due questionano spesso, ma sono indivisibili), rispose: «Non lo so nemmeno io. So soltanto che nella narrativa ci sono due tipi di personaggi: quelli creati e quelli costruiti. Amleto, per esempio, è un personaggio creato, così come Anna Karenina. Nero Wolfe e Archie Goodwin sono creati, come Amleto».
Wolfe è pachidermico, pantofolaio (non esce quasi mai dalla sua vecchia casa di arenaria rossa sulla 35ª Strada Ovest a mezzo isolato dal fiume Hudson), ama la grande cucina e le orchidee (soltanto per i suoi fiori preferiti viene meno una volta all’anno al suo voto agorafobico e si reca alla fiera delle orchidee, l’Orticola newyorchese). Assieme alle orchidee, coltiva molteplici idiosincrasie: «I politicanti, i predicatori, le persone cerimoniose e quelle che vivono senza lavorare, le menti ristrette, il cinema, la televisione, i rumori molesti, l’untuosità». Parla otto lingue. È nosofobico oltre che ipocondriaco, tra l’altro odia essere chiamato per nome, avaro, esoso, misogino, bizzoso. Ha praticato un solo sport in vita sua, le freccette, per un quarto d’ora al giorno, ma poi ha mollato. Troppo faticoso. È convintamente antifascista e anti-Fbi, cosa notevole nell’America anni Trenta Stout non era uno che le mandava a dire. Nella vecchia casa di arenaria rossa abitano anche Theodore Hortsmann, il responsabile della serra di orchidee, e il cuoco svizzero Fritz Brenner, che vive nello scantinato, dove conserva i suoi 298 libri di cucina e due casse piene di pentole antiche, una delle quali usata a quanto pare da Giulio Cesare in persona. Una delle sue ricette più prelibate è lo stufato di anatra ripiena di granchi.
Nella vecchia casa di arenaria rossa transita ogni tanto con bellicose intenzioni Fergus Cramer della squadra omicidi di New York, ma poi se ne torna in ufficio con le orecchie basse dopo la lezione di intelligenza superiore che Wolfe gli impartisce ogni volta.
Ma il più importante coinquilino di Wolfe è il suo braccio destro Archie Goodwin, aitante, faceto, bevitore (di latte) e sciupafemmine, che, come il dottor Watson di Holmes, narra le avventure di Wolfe. La figura di Archie è decisiva per il successo ormai quasi secolare dei gialli di Stout, perché, anche se preferisce il latte al gimlet, è un personaggio alla Philip Marlowe, appartiene al giallo americano, mentre Wolfe è davvero figlio di Holmes, del giallo all’inglese. Wolfe e Goodwin nella loro complementarità (uno analizza, l’altro agisce; uno è il software, l’altro l’hardware) uniscono le due tradizioni della crime story, il pensiero e l’azione, e rappresentano il detective del terzo tipo, la sintesi tra le due grandi scuole del giallo.
Si è fatto qualche gossip sul rapporto tra il sedentario Wolfe e lo spericolato Goodwin. Oreste Del Buono sosteneva che le coppie di investigatori sono come vecchi coniugi in cui «le passioni si sono spente a favore delle abitudini, della comprensione e dei risentimenti». Wolfe, come Holmes, sarebbe il maschio della coppia. Goodwin, come Watson, sarebbe la femmina (anche se Goodwin, eterosessualmente parlando, tromba alla grande). Del Buono si divertiva a citare una frase di Archie («una volta Wolfe mi aveva fatto notare che le orchidee erano le sue concubine: insipide, costose, parassitarie e capricciose») in cui il personaggio sembra dire più di quello che voleva dire e anche di quello che voleva dire Stout.
In realtà, Stout sapeva benissimo quello che diceva. La notte del 31 gennaio 1941, quando aveva già inventato i suoi due eroi da sette anni, lo scrittore partecipò a una riunione degli Irregolari di Baker Street, un club newyorchese di groupies americani di Sherlock Holmes. A circa metà riunione, Stout fece una domanda destinata a restare celebre nel mondo del giallo: «Ma è donna Watson?». Una domanda che forse è la risposta al perché è tanta la gente che legge gialli: ad affascinarli non sono i delitti, ma i seriali alla Wolfe e Archie.
Un’ultima cosa, un po’ patriottica e di cui andare fieri: tra tutte le interpretazioni cinetelevisive date di Wolfe e Archie, le migliori in assoluto a livello mondiale, quelle di Tino Buazzelli (Nero) e di Paolo Ferrari (Archie) negli sceneggiati Rai anni Sessanta con la regia (jazz) di Giuliana Berlinguer.