Corriere della Sera, 15 aprile 2023
L’orologio che ha rovinato Macron
Se è vero che ognuno di noi verrà ricordato per due o tre cose, allora Emmanuel Macron resterà nella memoria collettiva come il presidente con l’orologio; proprio come il suo lontano predecessore e dichiarato modello Valéry Giscard d’Estaing è ricordato come il presidente dei diamanti. Ma se quello fu uno scandalo mai chiarito che coinvolgeva un odioso dittatore, Bokassa, stavolta il presidente non ha fatto nulla di male. Si è soltanto tolto un orologio di lusso durante un’intervista televisiva in cui spiegava i motivi della propria riforma delle pensioni, contro le mobilitazioni di piazza. Nella foga dell’argomentazione ha sbattuto l’orologio; così se l’è slacciato di nascosto, tenendo per un breve e fatale attimo le mani sotto il tavolo. Ma per i suoi nemici l’ha fatto per vergogna, per occultare un simbolo di ricchezza e di privilegio proprio mentre sosteneva le ragioni per cui bisogna chiedere un sacrificio a lavoratori anziani e mal pagati.
Molto probabilmente ha ragione Macron. L’orologio non vale 80 mila euro, come hanno scritto i suoi odiatori, ma duemila: che non sono pochi, ma restano nella sfera dei fatti propri, non in quella delle brioches di Maria Antonietta, dell’ostentazione aristocratica e dello sfregio al popolo. E ovviamente ha ragione Macron pure quando ricorda che la vita si allunga e lavorare sino a 64 anni, con l’eccezione dei lavori usuranti, è necessario.
Eppure la popolarità del presidente è crollata, e secondo un sondaggio abbastanza terrificante se si votasse oggi Marine Le Pen entrerebbe trionfalmente all’Eliseo, battendo in un ballottaggio altrettanto terrificante il campione della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon. Ma allora, se l’orologio non era poi così costoso e la riforma prevede due soli anni di lavoro in più, perché la Francia ha reagito con tanta indignazione e tanta violenza?
Ieri sera sulla legge che Macron ha imposto in Parlamento senza avere la maggioranza dei voti si è espresso il Consiglio costituzionale: «i nove Saggi», come li ha definiti un’analisi del Figaro firmata dal soave nome di Célestine Gentilhomme, ma corredata di foto di celerini armati e scontri di inaudita durezza. Com’era prevedibile i saggi, presieduti da un vecchio e accorto arnese come Laurent Fabius che era primo ministro di Mitterrand a 37 anni e ora ne ha 76, hanno individuato una soluzione di mezzo, cassando parti secondarie della riforma ma salvandola nella sostanza. Come a dire: abbiamo ascoltato il popolo, senza boicottare il sovrano. Ora ci saranno altre fiammate, ma forse la questione si assopirà; in attesa della prossima rivolta.
I giovani, ha spiegato lo scrittore Emmanuel Carrère, non sono scesi in piazza perché da vecchi dovranno lavorare due anni in più, ma per ribellarsi a una vita che si annuncia «de merde» (termine che nel linguaggio pubblico francese suona quasi abituale o comunque meno urticante che in italiano). Se alla vigilia del Sessantotto la Francia si annoiava, oggi, al tempo dei Gilet gialli e dei ferrovieri sempre in sciopero, sente di non contare più nulla, vede i salari erosi dall’inflazione, i mestieri cancellati o stravolti dalla tecnologia, la vita di relazione impoverita dai social; e non trova nel presidente non si dice una soluzione, ma almeno un’attenzione. Perché Giscard, oltre che dei diamanti, è anche il presidente del divorzio, dei diritti civili, della modernizzazione liberale; Macron è fondamentalmente l’argine contro il populismo, di destra e di sinistra, ma non è riuscito a risolvere le questioni da cui il populismo trae vita e forza.
Di questa vicenda resterà l’immagine dell’orologio tolto sotto il tavolo non perché sia la più importante, ma perché fotografa spietatamente l’idea di Macron come uomo delle élites, arresta il tempo della sua presidenza alla difesa dell’establishment, fissa magari ingiustamente il fermo-immagine del privilegio, della distanza dal popolo, dell’incapacità sia di affrontare i problemi epocali, sia di chinarsi sul solco delle piccole vite.
Macron, il quale è tutt’altro che uno sprovveduto, ha subito provato a rilanciare sulla politica estera. Un anno fa tentava invano di ammansire Putin. Stavolta è andato da Xi Jinping. La sua rivendicazione della sovranità francese e dell’autonomia europea è stata letta a Washington come un mezzo tradimento in una fase drammatica della storia, con l’Ucraina aggredita dai russi e Taiwan in bilico. In realtà, Macron si muove in continuità con la politica della destra repubblicana del suo Paese. De Gaulle uscì dal comando integrato della Nato. Chirac – a differenza del laburista Blair – rifiutò di seguire Bush nella guerra in Iraq.
Ma alla fine persino un gigante della storia come il Generale viene ricordato per qualche piccola cosa. Facezie, magari false o ricamate, tipo «impossibile governare un Paese che ha 246 tipi di formaggio» (i numeri cambiano, secondo un’altra versione De Gaulle si sarebbe chiesto come governare un Paese che ha più formaggi dei giorni del calendario); e poi, ovviamente, «vasto programma» a chi gli grida «morte ai coglioni!». A De Gaulle hanno pure sparato (e lui graziò i sicari ma fece giustiziare il mandante, dicendo che «la cattiva mira non è un’attenuante»); ma nessuno l’avrebbe mai preso a schiaffi per strada, com’è accaduto a Macron. A noi piace ricordare il Generale che, alla vigilia del ballottaggio del 1965 con Mitterrand, ordina al ministro degli Interni, che gli aveva trovato la foto del rivale con il capo della polizia di Vichy: «Metta via quella roba». Quando si era spento il suo antico mentore Pétain, vincitore della Grande Guerra ma condannato alla fucilazione per collaborazionismo (e poi graziato proprio da lui), sul certificato di morte scrissero «sans profession», come fosse un cadavere anonimo raccolto per strada. De Gaulle disse: «Scrivete: “Philippe Pétain, maréchal de France”». E nessuno si è mai chiesto quale orologio portasse mentre lo diceva, e quanto valesse.