Tuttolibri, 15 aprile 2023
Le foto e la realtà
Poco più di un secolo fa, Charles Sanders Peirce aveva suggerito che i segni, e dunque le immagini, potessero essere distinti in due gruppi: gli indici e le icone. I primi avrebbero un rapporto di contiguità con il mondo: ad esempio delle impronte sul terreno che hanno una forma precisa dovuta a una zampa precisa; le seconde avrebbero, invece, una relazione basata sulla somiglianza: un qualsiasi dipinto che simuli in maniera mimetica le apparenze delle cose. A conti fatti, le fotografie appartengono al primo gruppo, in quanto «provocate» dalla luce che trasferisce su una superficie sensibile le qualità ottiche del mondo. Il digitale ha in parte cambiato le carte in tavola, anche se – come sottolineava Claudio Marra qualche anno fa – fintanto che davanti all’obiettivo bisognerà metterci un pezzo di mondo, sempre di fotografia si tratterà.L’avvento di immagini sintetiche – quelle generate dagli algoritmi chiamati enfaticamente «intelligenza artificiale» – chiede di rimettere di in discussione molti parametri o, perlomeno, di ridefinire confini e tassonomie. Queste nuove immagini, da alcuni già battezzate «sintografie» sono appunto immagini di sintesi: non sono provocate dall’osservazione del mondo, né da una sua trascrizione ottica: non sono dipinti, non sono fotografie; e dunque non sono indici, forse si tratta di un altro tipo di icona. Scomodando dibattiti di quindici secoli fa, potremmo definirle – non senza di ironia – immagini acheropite, ossia «non dipinte da mano umana» come erano quelle tavole raffiguranti Cristo o la Vergine dotate di poteri miracolosi e taumaturgici. Il dibattito è denso, complesso, anche infuocato e attraversato da ipotesi millenaristiche: siamo di fronte alla fine del mondo come lo abbiamo conosciuto?A contribuire al ragionamento è appena uscito un agile libretto di Joan Fontcuberta intitolato Contro Barthes, il cui sottotitolo è rivelatore: «saggio visivo sull’indice». E prontamente in copertina non solo c’è una foto, ma questa esibisce un ragazzo con un occhio nero che indica col suo dito indice il livido in questione: un indice di un indice. O una mise en abyme dell’indice. Ma andiamo per ordine.Fontcuberta insegna Comunicazione Audiovisiva all’Università Pompeu Fabra di Barcellona ed è considerato uno dei fotografi e teorici della fotografia più interessanti degli ultimi anni. Fondatore nel 1980 della rivista Photovision, ha pubblicato diversi libri sulla fotografia. Quest’ultimo volumetto è composto di un breve saggio – forse un pamphlet – e di circa 130 pagine di foto, tutte provenienti da un medesimo archivio: quello della rivista messicana Alerta. In tutte c’è qualcuno che mostra un punto nello spazio, un luogo, un oggetto, una ferita: ça-a-été «questo è stato» sembrano dirci. Si indica la realtà, per ribadire che tale è: reale. Eppure nessuna immagine è parlante se non sappiamo il contesto, il perché, il cosa. Non senza ragione, Fontcuberta ci mostra di molte foto, laddove disponibile, il retro: coperto di scritte, di note di appunti. Prendiamone una, quella di apertura. È un cartoncino verticale con un sottile bordo bianco: a sinistra un alberello contorto e nodoso, a destra una ragazza che lo indica, sul fondo c’è un muro di mattoni su cui si intravede l’ombra tagliente (eppure pallida) dell’albero e della ragazza, effetto tipico del flash sparato in una giornata di sole. Giriamo la foto e leggiamo il retro: «la ragazzina teresa Alemàn Valdivia mostra al nostro corrispondente il luogo in cui fu violentata da suo padre il facchino Cipriano Alemàn». (teresa è in minuscolo nel testo, un refuso?). Ora non possiamo che guardarla in modo diverso. Si tratta di immagini di cronaca nera: omicidi, stupri, uccisioni violente e sanguinose, torture, rapine. Nota roja (in italiano «cronaca nera») è il nome di queste immagini dove «se non c’è sangue non c’è notizia». Alerta è dunque un caso studio per Fontcuberta da cui partire per una riflessione sul fotografico attuale. Per Roland Barthes è appunto il valore di verità che definisce la foto: ciò che vedi esibito è stato, ed è il «questo è stato» che è ormai in discussione. Il nocciolo del ragionamento riguarda in definitiva la verità più che la fotografia. Ça-a-été. E lo indico. Indico il livido sull’occhio, indico l’albero dove sono stata abusata, per dirti che è vero, che è davvero successo. Ma cos’è oggi quel questo? La fotografia potrebbe sopravvivere come fatto di élite, la verità potrà continuare ad abitare le mostre e le biennali, ma che ne sarà del nostro rapporto con la realtà di tutti giorni?