Tuttolibri, 15 aprile 2023
Sulla Xylella
Il fuoco invisibile è un libro di un genere per fortuna meno raro del panorama italiano: quello del reportage scientifico. L’emergenza e climatica e pandemica hanno riabilitato la possibilità e il dovere di un racconto e di una divulgazione scientifica di qualità. Rielli mette a frutto la capacità di costruire storytelling che aveva manifestato fin dai suoi reportage gonzo firmati con lo pseudonimo di Quit the doner, e affronta il suo romanzo famigliare. La scaturigine del racconto è infatti personale: il padre e i nonni paterni hanno diversi ettari di olivi in Puglia; all’inizio degli anni dieci, come migliaia di agricoltori soprattutto nel Salento, si trovano a fronteggiare la devastazione portata dal batterio della Xylella. Rielli segue l’evoluzione del caso per più di dieci anni, nei quali il territorio coinvolto passa da 6mila a più di 100mila ettari, con ventuno milioni di alberi morti. Ma la tragedia naturale non è la peggiore: come in una versione ancora più farsesca di Don’t look up non è l’asteroide o il batterio tossico a farci spavento, ma la crisi epistemica che contagia gli esseri umani, la rimozione collettiva del disastro. Rielli assiste prima ironico, poi attonito, poi moralmente distrutto all’avanzata del negazionismo tra i coltivatori di ulivi. Vecchi mezzadri analfabeti insieme a personaggi pop, politici di rilievo nazionale e piccoli traffichini di provincia si imbarcano in una lotta contro la verità drammatica per cui l’unico contrasto possibile al dilagare della Xylella sia isolare la zona infetta tagliando gli alberi appena colpiti. Chiunque abbia visto cosa è accaduto e cosa può ancora accadere in Puglia – le lande sterminate dove il fuoco invisibile dell’epidemia ha distrutto ogni vita del paesaggio – non può che sentire il brivido etico nel ripercorrere leggerezza dopo leggerezza le parole con cui Albano, Caparezza, Nadia Toffa delle Iene, Michele Emiliano minimizzavano il peso del disastro. «Risaliamo in macchina e confesso che quel fuoco di fila di cose imprecise, inesatte, non vere, ripetute di continuo, sempre uguali, incomincia a essere provante. È una questione che va oltre gli ulivi, ha a che fare con il modo umano di rapportarsi alla realtà, di cercare di estrarne una verità condivisa. Vedere un ulivo secolare sradicato fa piangere, una società intera che crede a cose palesemente false è terrorizzante, le implicazioni vanno oltre l’agricoltura e sono oscure».
Se l’argine possibile all’espansione della Xylella è creare un diaframma tra le piante già colpite e quelle ancora sane, quale diga può essere edificata contro una così pervicace e estesa diffusione di una nonverità? La quest che Rielli conduce prova in tutti i modi a tenere aperta questa domanda, volendo salvare i vari criteri con cui le comunità costruiscono non soltanto le narrazioni illusorie ma anche le forme di verità: quella dei sensi, quella scientifica – è toccante il passaggio in cui viene intervistato Joseph Marie Bové che dopo aver mostrato la visione dall’alto della piana salentina devastata conclude: «Questa? Be’, è la peggiore emergenza fitosanitaria al mondo» – come quella storica.
Il sapere popolare sulla tutela del territorio, passato di generazione in generazione, diventa davvero soltanto un mito inutilizzabile fatto di rimedi che si fingono miracolosi? Cosa fare quando anche il discorso politico istituzionale si rivela complice degli impulsi antisistema? La resistenza alla devastazione ecologica e cognitiva può generarsi solo da una ricucitura lenta, un dialogo tra singole persone all’interno di quelle comunità generazionali, sociali, locali, politiche che non esistono più. La relazione che Rielli racconta tra lui e Giovanni Melcarne, agronomo in cerca di semenzali resistenti al batterio, riesce a trasformare un’esperienza singolare in una piccola epica, le domande continue che vengono fatte ai ricercatori del Cnr per trovare un sollievo nella coscienza solitaria della devastazione così come il continuo confronto fra l’autore e il padre nato e cresciuto tra gli ulivi secolari riaccendono una speranza che ci sia una possibilità di tenere insieme i saperi famigliari e quelli scientifici, le comunità ridotte a atomi e la passione per cambiare i destini suicidi che le passioni tristi impongono ai luoghi che abitano. Il finale del Fuoco invisibile diventa chiaramente figura del complesso conflitto che attraversiamo: il cambiamento climatico, la fine dell’antropocene divora invisibilmente il pianeta che viviamo. Chissà qual è il nostro modo di riparare il mondo che può servirci prima dello schianto.