il venerdì, 15 aprile 2023
Intervista a Nanni Moretti
«Se in copertina fanno un titolo politico (il governo, Meloni, Schlein, il Pci) mi butto giù dal ponte». Non era possibile trovare un miglior incipit per questo articolo. È un Whatsapp, testuale, che Nanni Moretti mi ha mandato qualche giorno fa, dopo il nostro incontro romano alla Sacher e dopo la visione del suo nuovo film, Il sol dell’avvenire.
Ci conosciamo da quarant’anni tondi, nel corso dei quali spero abbia preso atto che perfino un giornalista può assomigliare a un essere umano. Conto di non essermeli giocati tutti in una volta, questi quarant’anni, rendendo pubblico un suo messaggio privato, ma così perfettamente morettiano. Anche nella forma, drastica e comica, così simile a tante battute della sua cinematografia.
Ma perché, se il titolo di questo articolo fosse "politico", Nanni si butterebbe giù dal ponte? Intanto perché dei giornali non si è mai fidato, come sa bene chiunque si sia appuntato qualche sua frase tombale («La vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla su un settimanale», Palombella rossa, 1989). Ma soprattutto perché questo film, in particolare, è ad alto rischio di letture facili, al servizio dell’“attualità politica”, della polemica veloce, mettendo in ombra il resto: e il resto è il cinema. Il resto è la sua vita.
Naturalmente c’è molta politica in quasi tutto il cinema di Moretti, e moltissima in questo film: non potrebbe essere altrimenti, si chiama Il sol dell’avvenire, parla (anche) del comunismo e del suo sprofondo, di Stalin e di Trotsky, e il protagonista (lui) è un regista che, ai tempi nostri, sta girando un film sui fatti di Ungheria. Ma la politica c’è, qui e negli altri film, solo perché segna fortemente la sua biografia e quella della sua generazione; è una politica che si è fatta cinema. Per giunta si tratta del cinema di un autarchico vero, padrone del suo lavoro, geloso dell’autonomia del suo linguaggio, diffidente (eufemismo) nei confronti della traduzione mediatica di quello che, per lui, può e deve avvenire solo nella sua testa prima, in una sala cinematografica poi.
Per questo Nanni Moretti trema all’idea che un lavoro lungo, profondo, accurato - un film, almeno un film come dovrebbe essere fatto - possa essere frainteso, o destinato, diciamo così, ad altri usi. Per un autore che fondamentalmente parla, da una vita, della solitudine e insieme dell’irriducibilità, e lo fa con strumenti propri - lo fa appunto "da solo" - la promozione dev’essere un supplizio, e un’intervista una prova molto faticosa. Nanni ci scherza. «Ho letto la tua intervista sul Venerdì a Vasco Rossi. Non sono brillante come Vasco Rossi. Come facciamo, adesso?». Stiamo insieme un paio d’ore, parlo più io di lui, quello che segue è un mio montaggio, spero non troppo saltabeccante, di piccole e medie sequenze di frasi, il virgolettato è suo, tutto il resto - mi scuso se fosse troppo - è mio.
«Quando scrivo un film, quando lo giro e lo monto, come destinazione e pubblico ideale penso solo alla sala cinematografica», dice seduto alla sua scrivania nella sede della casa di produzione Sacher, tra cumuli di memorabilia della sua ormai lunga storia artistica. Trofei, libri, gadgets, riviste, manifesti, locandine vere o "quasi vere" come le due di Maciste contro Freud e Cataratte, i film immaginari prodotti da Silvio Orlando nel Caimano. Tutto, qui dentro, è familiare e protettivo, un appartamento romano di Monteverde Vecchio in un palazzo borghese, al piano di sotto c’è uno psicanalista ed è molto morettiano anche questo. (Anche nel nuovo film c’è uno psicanalista, simpatico e nel complesso distratto, come se non fosse più così urgente esserci...).
«Se cominci a chiederti che cosa può pensare il pubblico del tuo film ti blocchi, non riesci a seguire l’ispirazione, ti distrai, tradisci il tuo desiderio. Certo, dopo il percorso dentro le sale il film probabilmente andrà nelle piattaforme, e dunque andrà ovunque. Ma non possono chiedermi di pensare al tredicenne in Pennsylvania che andando in metropolitana guarda film sul suo cellulare. Non faccio cinema per questo... Il cinema lo faccio per me, certo che lo faccio per me».
(A proposito di piattaforme: un dialogo, purtroppo breve, con tre giovani dirigenti di Netflix che cercano di spiegare a Nanni qual è il minuto esatto nel quale è obbligatorio mettere un turning point, è una delle scene più irresistibili del film).
«Poi ovviamente mi auguro che il mio film trovi il suo pubblico, ma il bello è che è impossibile sapere prima che cosa accadrà. Il pubblico è più trasversale di quanto si possa pensare, più sorprendente. Tanti film, teoricamente commerciali, alla prova dei fatti non lo sono per niente, e vale anche il contrario: l’enorme successo delle Otto montagne è stato una sorpresa per i due registi e per chi l’ha prodotto. Ma non è successo lo stesso per il film iraniano Gli orsi non esistono, bellissimo, con il regista Jafar Panahi in carcere. Peccato, fino a pochi anni fa avrebbe avuto molti spettatori in più. Io ho un cinema, so bene quanto il pubblico si stia riducendo, si andava al cinema una o due volte a settimana, ora poche volte all’anno, è una situazione nuova, pesante. Ma io continuo a far finta di niente, come se non ci fosse nessuna crisi. Pensando un film non mi lascio condizionare, lo faccio come voglio io. Non voglio farmi disturbare».
Gli dico che il suo film sembra un bilancio di vita, e nel finale un commiato. Ci pensa, poi sorride: «Non era programmatico che lo fosse, è venuto così. Comunque no, non volevo fare testamento». Fatto sta che Il sol dell’avvenire - e il suo pubblico affezionato ne sarà entusiasta - è anche un riepilogo puntiglioso, quasi enciclopedico, di tutte le idiosincrasie, i tic, le ossessioni che hanno dato forma al personaggio. Il disprezzo per le pantofole e gli esecrati sabot, il puntiglioso rimprovero a chi fa cose che lo urtano o gli dispiacciono, insomma quella specie di nevrosi correttiva che è la molla di molte delle sue sequenze e battute più celebri, quelle che poi rimangono (l’archetipo è il "te lo meriti, Alberto Sordi!" gridato all’avventore di un bar che fa un discorso qualunquista in Ecce Bombo, 1978; molto citato anche il "continuiamo così, facciamoci del male" con il quale in Bianca, 1984, bolla il malcapitato che non conosce la torta Sacher).
L’apoteosi, qui, è quando Giovanni (Nanni) interrompe il ciak finale del film di un giovane regista, non condividendone spirito e sostanza, e mettendo in profondo imbarazzo tutta la troupe. Scena lunga e formidabile, comica e drammatica in modo inestricabile, che si conclude con una specie di profezia biblica: «Una mattina vi sveglierete e comincerete a piangere, perché vi renderete conto di quello che avete combinato».
C’è una specie di urgenza pedagogica - c’è sempre stata - che lo spinge o forse lo costringe a intervenire nelle cose, a scontrarsi con le persone, a non essere un passante come tanti. Uno spettatore superficiale si limiterà a considerare buffo, magari anche un poco irritante, il Moretti interventista, quello che sgrida e corregge. Senza rendersi conto che, dietro quell’intercalare critico, quella fissazione polemica, c’è una reattività umana, un litigare con i tempi, nei quali molti si identificano. Come per un patimento condiviso. Non solo "le parole sono importanti", anche tutto quello che ci succede intorno è importante. Come è possibile non farsene carico?
«Mi identifico totalmente nel protagonista del mio film, Giovanni, quando dice quella frase, vi metterete a piangere quando capirete cosa avete combinato. È proprio una mia frase».
Nel film, con Silvio Orlando e Margherita Buy al loro meglio, succedono tante cose. Amori, separazioni, un interludio molto poetico con il pallone, la Roma di oggi, la Roma di ieri, il monopattino che soppianta la Vespa. L’arrivo e la partenza di un circo ungherese, inevitabilmente molto felliniano. «Ho rivisto molto Fellini durante il lockdown. Ero felliniano già cinquant’anni fa, i due partiti erano Fellini e Antonioni. Mi sono ritrovato felliniano anche cinquant’anni dopo».
Il finale è allegro. Non posso dirne troppo, lo spoileraggio ha un limite, ma è una vera e propria rivincita del cinema sulla politica (e dell’arte sulla Storia), perché immagina, e mette in scena, quel lieto fine che non c’è stato: con tanto di scritta finale edificante, e addirittura Trotsky che spodesta Stalin. L’immaginazione che sfratta il dogma, cose sessantottarde che rimandano all’artista da giovane, ai suoi primi film. La vita è un cerchio, dopo una certa età, e molte cose sembrano ritornare da dove erano partite.
«Sono stato un trotskista non dogmatico, stavo in un gruppo attorno alla rivista Soviet, con Paolo Flores d’Arcais. Nei cortei, all’epoca, c’era spesso il ritrattone di Stalin, io nel film ci ho messo quello di Trotsky, per la serie: se avesse vinto lui... Spesso mi sono chiesto, molto ingenuamente, perché nel ’56 il Pci non prese posizione contro i carri armati sovietici. Un giorno, nel 2010, filmando tutto, intervistai Pietro Ingrao. E glielo chiesi. Lui mi rispose, guardandomi negli occhi: non era possibile».
(In un cassetto della Sacher, dunque, esiste un’intervista inedita di Nanni Moretti a Pietro Ingrao. Nel caso sia uno scoop, sarebbe il primo della mia vita. Probabilmente anche l’ultimo).
«La storia non si fa con i se è una frase alla quale ho pensato spesso, soprattutto quando Rifondazione fece cadere Prodi, all’epoca molto popolare. L’Ulivo ebbe paura e non volle andare ad elezioni anticipate, che avrebbe comunque vinto anche senza Rifondazione. Questo Paese sarebbe stato diverso».
Al cinema invece i "se" possono vincere. Addirittura trionfare, generando quel turning point che piace tanto ai manager di Netflix. Giovanni cambia il finale del suo film, doveva essere mortale, lo fa diventare vitale... L’arte conta più della politica?
«Se dentro l’arte c’è autenticità ed energia, può contare molto».
Hai scritto il film con tre donne, Francesca Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella. Come avete lavorato?
«Insieme. Senza dividerci i compiti. Si parla tutti insieme, poi si comincia a scrivere. È un gran bel viaggio, professionale e umano. Da solo ho scritto parecchi dei miei film, Io sono un autarchico, Ecce Bombo, Sogni d’oro, Palombella rossa, Caro diario e Aprile. Ora non mi piace più scrivere da solo. Qui ho lavorato con tre sceneggiatrici, più giovani di me ma pressappoco della mia generazione, perché è sì un film personale, nello stile e nei toni, come sempre i miei film, ma non l’avrei potuto scrivere con un trentenne».
A proposito di generazione: ti senti reazionario, rispetto ai tempi?
«Non mi sembra... (riflette e tace) sto facendo una panoramica interna... Scettico sì, quello sempre. Anche da giovane. Cinico mai. Reazionario nemmeno. Mi sento dell’altro secolo, questo sì. Ma è un dato di fatto, non ci si compiange e non ce se ne compiace».
Magari si perde qualcosa di importante. Per esempio: segui i siti, i blog, i nuovi media?
«Non ho questo tipo di ansia, a questa età uno ha un’altra considerazione del proprio tempo. Magari quarant’anni fa andavo a vedere certi film apposta per indignarmi, ora i film che già so che non mi piaceranno non li vedo. Quando davanti a te non hai una vita intera, diventi per necessità più selettivo. E comunque le cose che cambiano ci sono ugualmente. Per me, per esempio, un vero cambiamento dell’ultimo anno e mezzo è stato il teatro. Prima ci andavo per dovere, invitato da amici attori e registi, e spesso era un supplizio. Ora ci vado volentieri, ci vado apposta, sono diventato uno spettatore appassionato come ai tempi di Carlo Cecchi e del Gruppo della Rocca. Mi è piaciuto molto Tavola tavola, chiodo chiodo, con Lino Musella. Moltissimo una strepitosa Opera da tre soldi del Berliner Ensemble. E a ottobre esordirò come regista di teatro, due pezzi di Natalia Ginzburg, Fragola e panna e Dialogo, una lingua molto moderna, mai autocompiaciuta».
Dunque ti vedi operoso, da vecchio.
«Diciamo fattivo. Ho voglia di lavorare, quello sì. La mia regia teatrale mi coinvolge molto, e anche il mio lavoro con la sala (cinema Nuovo Sacher) mi impegna. Funzionano ancora gli eventi, è la programmazione normale che fatica. Presto produrrò il film d’esordio di una giovane regista. Mi occupo del cinema degli altri e non l’ho mai fatto per dovere, o perché mi sentivo investito da una missione. Lo faccio per piacere, lo considero complementare al mio lavoro di regista. E spero senza i pericoli dei registi che diventano produttori: primo, non produco sottogeneri morettiani; secondo non produco film mediocri soltanto per constatare che purtroppo non ci sono nuovi registi e dunque esistiamo solo noi; terzo non faccio esordire giovani al solo scopo di torturarli. Collaboro ai film che produco con suggerimenti non da produttore o regista, ma da semplice spettatore. Tra gli esordienti l’anno scorso mi sono piaciuti molto Californie, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, visto quasi da nessuno. E Piccolo corpo, di Laura Samani, ambientato in Carnia».
I critici, la critica: una volta servivano, anche se poteva essere doloroso, per un autore, leggere le recensioni.
«I critici potevano condizionare, nel bene e nel male, il cammino di un film. Ricordo l’importanza che poteva avere una recensione di Kezich su Repubblica. Ora so che ci sono i blog che si occupano di cinema, sicuramente mi perdo qualcosa ma riesco a campare senza. Senza vantarmene, ma senza nemmeno vergognarmene, compro ancora il giornale, e leggo quello. Porca miseria, te l’avevo detto che non sarei stato simpatico e brillante come Vasco Rossi!».
Con la promessa di non metterlo nel titolo: Schlein?
«Ho votato per lei, contro il luogo comune sbagliato che fosse “troppo di sinistra”. Senza ricordare che dieci - quindici anni fa tanti amministratori sono stati eletti essendo a sinistra del Pd, Doria a Genova, Pisapia a Milano, Vendola in Puglia, Zedda a Cagliari. Incredibile come alle volte quella che viene chiamata narrazione non si deposita nella memoria. Eppure è successo pochi anni fa. Devi essere credibile, tanti elettori del Pd, tra cui io, hanno avuto per anni tanta pazienza e ora si sentono un poco meno lontani da chi dovrebbe rappresentarli».
Questo governo?
«Avevo un pregiudizio. Ora il giudizio è peggiore del pregiudizio».
Fai ancora sport?
«Pilates e tennis. Ma sono turbato: quando perdo a tennis, sono meno dispiaciuto di un tempo. Una preoccupante deriva non agonistica».